mercoledì 20 gennaio 2010

Il bambino che sognava la fine del mondo


DUE CHIACCHIERE PRELIMINARI: me l’ha regalato mia madre per Natale, assieme a “L’eleganza del Riccio” e “L’estate dei morti viventi”.

TRAMA: In una scuola materna di Bergamo sul finire del 2007 giungono due maestre trasferite da Brescia. Provengono da una scuola sulla quale pende un processo per presunti casi di pedofilia. Pochi mesi dopo l’inizio della scuola una bambina comincia ad accusare sintomi di molestie: in poco tempo i sintomi dilagano anche tra i suoi compagni si scuola. Le autorità indagano, in breve ambienti ecclesiastici e universitari vengono travolti dai miasmi dello scandalo. Ma è davvero accaduto qualcosa? O è tutto frutto di un fenomeno si suggestione di massa?

COMMENTO: Libro complesso, l’ultimo di Scurati. Sfaccettato e sofferto come pochi. Raccontata così in poche parole la trama sembra quella di un giallo, in cui scoprire alla fine chi sono i colpevoli. In realtà “Il bambino che sognava la fine del mondo” è qualcosa di totalmente diverso. Cominciamo col dire questo, non appena ho cominciato a leggere il libro la mia mente è corsa immediatamente a Rignano Flaminio, credo che nessuno possa essersi dimenticato di cosa parlo: per un certo periodo non di è parlato d’altro. Quel caso di un asilo alle porte di Roma in cui due maestre e varie altre persone sono state accusate di avere portato all’esterno della scuola numerosi bambini per sottoporli poi ad abusi sessuali addirittura a sfondo satanico. Non so come quella vicenda sia andata a finire: fatalmente accade abbastanza di frequente, dopo un certo periodo sotto i riflettori queste storie escono dal circuito dei media e spesso e volentieri si rimane anche orfani del finale. Alle ultime notizie che ricordo su questo fatto l’impianto accusatorio pareva essere stato quasi completamente smontato.
Ad ogni modo, come dicevo, leggendo il libro di Scurati - il cui protagonista (di cui non viene mai detto il nome) lavora all’università di Bergamo (come Scurati) ed è corrispondente de “La Stampa” (come Scurati), e parla di e addirittura con personaggi realmente esistenti quali Massimo Gramellini ed Enrico Mentana - sono stato per un po’ prigioniero di un incantesimo: non sapevo più se quello che stavo leggendo era un’opera di fiction o una personale ricostruzione di un evento di cronaca realmente accaduto e che mi fosse, chissà come, sfuggito.
La verità è che “Il bambino che sognava la fine del mondo” è un romanzo e d’altronde se avessi letto la nota che si trova prima della dedica mi sarei accorto che l’autore lo dice esplicitamente.
Eppure, anche se si tratta di un’opera di fantasia, l’impatto emotivo per me è stato comunque molto grande, paragonabile a quanto lo fu leggere, a suo tempo, “I quasi adatti” di Peter Hoeg.
Perché? Perché… già. Perché Scurati è uno di quegli autori che non ti lascia sedere comodo sulla tua poltrona da spettatore, ed è in grado con le sue tematiche e specialmente con il suo modo di affrontarle (mi era già successo con “Il sopravvissuto”) quasi di affondarmi nella carne.
Il caso di presunta violenza in realtà resta quasi tutto il tempo sullo sfondo, le tematiche vere sono altre. La realtà mediatica che confonde quella vera ad un punto tale da arrivare a divorarla. Una città appestata dai miasmi di un epidemia di paura e sospetto, fino a perdere la sua innocenza provinciale. La putrescenza dell’istituzione universitaria. I ricordi di un bambino (il protagonista) nella cui infanzia forse è sepolto qualcosa di traumatico. La paternità. E molti altri ancora.
Infine, sullo sfondo di tutto, una grande domanda di stampo psicoanalitico: è davvero possibile che, in un caso come quello di Rignano Flaminio, non sia in realtà accaduto nulla? E se fosse veramente così, questa suggestione collettiva, questa convinzione diffusa che qualcosa di brutto si accaduto, può trasferirsi su chi dovrebbe avere in prima persona vissuto questo episodio (i bambini) creando essa stessa il trauma?
Scurati da una sua risposta a questa domanda, una risposta atta a risolvere narrativamente la vicenda di un romanzo, e come tale può piacere o non piacere. Ma non giudica, non si schiera in fondo né con i “colpevolisti” (coloro che sostengono che in casi come questo qualcosa debba per forza essere successo) né con gli “innocentisti”, che anzi lui chiama “colpevolisti di secondo tipo” (ossia coloro che ritengono possa non essere accaduto nulla e accusano i “colpevolisti” di avere appestato il clima con le loro grida). Non è questo che gli interessa, non è prendere parte ad una colluttazione ma svelare un meccanismo e in questo è preciso e implacabile.
Una nota particolare per il modo di scrivere dell’autore. In genere io non apprezzo molto un linguaggio ricercato, ritengo che spesso e volentieri le cose si possano (e si dovrebbero) dire in una maniera il più possibile comprensibile. Di norma mi irrita un po’ chi cucina periodi lunghi, complessi, fino a volte a risultare nebulosi. Scurati è sul mio limite, se “abusasse” della lingua un briciolo di più io comincerei a storcere il naso. In tutta onestà qui e là mi è capitato di storcerlo. Però glielo perdono perché per i nove decimi del libro invece la prosa è riuscitissima, una delle poche che riesce ad emozionarmi, al di là di tutto, anche per il suo “bello scrivere” (per il mio gusto, s’intende…).

domenica 10 gennaio 2010

Rovigo reportage

Ed eccomi, come promesso all’attesissimo (posso solo provare a immaginare quanto…) Rovigo reportage. Ebbene sì, non millantavo, il 3 gennaio 2010 per inaugurare al meglio un nuovo anno turistico io e Simona siamo andati in gita a Rovigo. Di seguito quel che ne è “scaturito”. Come per la Gita a Genova, in corsivo trovate la "cronaca del viaggio", mentre in corpo normale trovate considerazioni e informazioni varie.

La preparazione del viaggio: a parte un breve interludio sulla solita viamichelin per tracciare il percorso, il problema maggiore che abbiamo incontrato in questa fase è stato recuperare qualche informazione sul posto. Non avendo una guida del Veneto e non volendo acquistarla per l’occasione, né volendo andare allo sbaraglio consegnando la nostra gita ad un certo fallimento (giro in centro + ritorno a casa con la coda tra le gambe), ci siamo dedicati ad una serrata ricerca su internet. Ebbene, dovete sapere che trovare info turistiche sulla città di Rovigo non è facile e, potreste obiettare, forse un motivo c’è pure… non vi do tutti i torti, ma noi forti dell’idea che TUTTE le città debbano PER FORZA avere qualche motivo di interesse, non abbiamo demorso (o demorduto… mah!). Alla fine, un po’ raschiando il sito del comune e soprattutto grazie al sito di Travelitalia che su Rovigo è insolitamente ricco di notizie abbiamo recuperato alcune belle paginate di notizie su vari luoghi considerati interessanti.


La partenza: Sicchè, la mattina del 3 gennaio, verso le 9:00 del mattino siamo partiti.
Da Modena il viaggio non è lungo, all’incirca un’ora e mezza, quasi tutto di autostrada: A1 fino a Bologna e poi A13 (la Bologna - Padova) fino a Rovigo. Noi in particolare siamo usciti a Rovigo sud, ma in realtà abbiamo valutato in seguito che l’uscita successiva si trova più vicina alla città.

L’arrivo: Siamo arrivati verso le 11, mettendoci un po’ di più dell’ora e mezza indicata dalla guida causa sosta in autogrill per cappuccino e cambio guidatore (stava guidando Simona, ma poi ha avuto un attacco di emicrania…). Usciti, come detto, a Rovigo Sud siamo arrivati a parcheggiare l’auto in Via Alberto Mario, nei pressi di una porta medievale che poi abbiamo scoperto essere Porta San Bortolo. Scesi dall’auto abbiamo cercato la nostra via sulla cartina che avevo stampato da viamichelin, scoprendo che in realtà non si capiva una cippa. Sicchè ci abbiamo lasciato che fosse l’istinto (nonché il flusso della gente a piedi) a guidarci, prima verso Piazza Garibaldi e poi verso Piazza Vittorio Emanuele II, l’ombelico della città. Qui dopo esserci guardati un poco in giro spaesati e constatato che tutte le informazioni che avevamo stampato sulla città erano perfettamente inutili senza una cartina decente, ci siamo fiondati all’interno del centro informazioni turistiche a recuperarne una degna di tal nome.
Il centro per le informazioni turistiche si trova appunto in piazza Vittorio Emanuele II, di fianco all’Accademia dei Concordi, all’interno di una vecchia farmacia, e occhio perché se uno si sta proprio bene attenti sembra ancora una farmacia: noi abbiamo indugiato sulla sua soglia un paio di minuti prima di deciderci ad entrare! Se Venite da Piazza Garibaldi percorrete il portico subito sulla destra e arrivati fin quasi in fondo vi ci troverete davanti. Non so se recuperare una buona cartina turistica da internet sia intrinsecamente difficile, ma quello che vi posso dire è che mentre io stampavo quella che si sarebbe rivelata una ciofeca mi sono fatto ingannare dai viali ad anello che si trovano intorno alla città. Io credevo che racchiudessero solo il centro storico, mentre in realtà si tratta di un cerchio molto più ampio, per cui il mio consiglio è il seguente: stampate una piantina almeno una o due volte ingrandita rispetto all’anello dei viali e comunque dirigetevi subito in piazza Vittorio Emanuele a prendere una vera cartina.

Il giro del mattino: La gentilissima ragazza di un ufficio informazioni turistiche deserta è stata più che felice di darci in mano una cartina e descriverci brevemente tutti i punti più notevoli della città, indicandoci in special modo Palazzo Roverella (sede di mostre di vario genere, ma chiuso nella circostanza), il Duomo, la chiesa di San Francesco (dove si trovano alcune pregevoli opere pittoriche), la Chiesa della Beata Vergine del Soccorso (il monumento simbolo di Rovigo) e il Museo dei Grandi Fiumi (compreso nel complesso di San Bartolomeo Apostolo e dedicato ai resti trovati nel Polesine risalenti all’età del bronzo, del ferro e romana). Ahimè, la chiesa della Beata Vergine del Soccorso chiudeva a mezzogiorno riaprendo alle 16 mentre il Museo dei Grandi Fiumi chiudeva alle 13, ma era notevolmente più lontano. Sicché visto che ci avvicinavamo al mezzogiorno abbiamo deciso di fare una passeggiata per la città, andare a pranzo e fare nel pomeriggio le due cose che sembravano più promettenti, ossia la Chiesa della Beata Vergine e il Museo dei Grandi Fiumi. Lasciata Piazza Vittorio Emanuele II su cui proiettavano Palazzo Roverella (chiuso), l’Accademia dei Concordi (sede della omonima istituzione culturale, la più prestigiosa di Rovigo, chiusa), il cosiddetto Corpo di Guardia (un edificio neoclassico che appare piuttosto estraneo al contesto, costruito dagli Austriaci nel 1800: chiuso), abbiamo attraversato Corso del Popolo (l’arteria principale della città, sventrato perché in fase di pedonalizzazione) per arrivare al Duomo (non siamo entrati perché era in corso una funzione) e quindi al Castello e al relativo parco (chiusi entrambi perché in ristrutturazione). Ci siamo allora diretti dall’altro lato della città, passando davanti al Teatro Sociale (chiuso), la Chiesa di San Francesco (quella con alcune pregevoli opere pittoriche, chiusa), e l’Oratorio della Immacolata Concezione di Maria (aperto ma con in corso una funzione). Abbiamo allora deciso di andare a magiare… ma trovare un posto aperto è stata un’impresa. Alla fine dopo un carpiato di 360 gradi siamo riusciti a ficcarci in una pizzeria nei pressi del Castello dove a Simona hanno portato il calzone sbagliato (al prosciutto e salame, e lei è vegetariana…) e la pizza davvero non era granché: una di quelle che ti rimangono a navigare nello stomaco fino a notte. A onor del vero prima di pranzo siamo finalmente riusciti ad entrare nel Duomo: una chiesa riedificata alla fine del 1600 sopra ad un complesso preesistente, dalla facciata incompleta e dall’interno assai luminoso e spoglio e che non contiene granché di notevole.
Che dire, questo giro mattutino credo si commenti da sé. E’ stato interessante comunque camminare per la città, che è invero piuttosto piccola (circa 50.000 abitanti): non ci ha aiutato il fatto di essere arrivati un po’ tardi, né le festività natalizie e nemmeno il fatto che per tutta la città siano in opera numerose ristrutturazioni. Questo forse in special modo. Il castello, di cui restano specialmente due torri, e il relativo parco sembrano carini per quanto non particolarmente notevoli e sicuramente quando avranno finito di risutrtturarli sarà interessante visitare il primo e rilassante oziare un po’ nel secondo. Corso del Popolo invece è un viale di una grandezza abbastanza spettacolare, assolutamente sproporzionato rispetto alla città che è piuttosto piccola, quando avranno finito di metterlo a posto diventerà di certo bello. Ma un po’ tutta la città è un cantiere, e in numerosi punti si legge che questo fa parte di unico progetto comunale integrato di riqualificazione complessiva. Sarà interessante tornarci tra un paio d’anni quando i lavori saranno conclusi.

Giro del pomeriggio e ritorno: Siamo usciti dalla pizzeria che erano le due e mezza circa del pomeriggio e avevamo ancora più di un’ora da far passare prima di dedicarci alla Chiesa della Beata Vergine del Soccorso e al Museo dei Grandi Fiumi, per cui ci siamo trasferiti in un caffè di Piazza Vittorio Emanuele II, dove abbiamo sorseggiato un tè e continuato le nostre chiacchiere. Verso le 15:30, abbiamo ripreso il nostro giro per la città e passando di nuovo davanti alla Chiesa di San Francesco (sempre chiusa), siamo giunti poi alla Chiesa della Beata Vergine del Soccorso e siamo persino riusciti ad entrarci.
Il “monumento simbolo di Rovigo” è una chiesa ottagonale costruita a cavallo tra 1500 e 1600 con accluso porticato della medesima forma e che proietta su una piazza abbastanza grande (evidentemente nel Polesine lo spazio non mancava…) anche lei in fase di ristrutturazione. Dietro, staccato dalla chiesa, c’è un campanile abbastanza alto ma piuttosto anonimo in quello stile che non saprei definire ma si vede in tutte le chiese principali dei paesi dalla bassa bolognese fino al rodigino: tutto in mattoni a vista, con la parte in alto appena decorata. Anche la chiesa, vista dall’esterno, a parte la sua originalità architettonica non sembra molto ben tenuta: dentro però è invece piuttosto bella, specialmente il fatto che non ci sia un metro quadro di parete libera ma sia stata chiaramente progettata per essere un continuo di tele la rende abbastanza spettacolare.


Dopo questa (in realtà breve) visita ci siamo diretta alla nostra automobile e dopo una brave digressione ad una mostra di presepi etnici e meccanici organizzata da una qualche parrocchia in un’abitazione privata (la fanno tutto gli anni, e a quanto abbiamo capito c’è anche un concorso per il presepe più bello). Ci siamo diretti al Museo dei Grandi Fiumi. L’entrata proietta su un bel chiostro cinquecentesco di un monastero Olivetano, e il museo in sé è piuttosto ricco e di nuova concezione: a parte i classici reperti archeologici, gli spazi sono arricchiti da installazioni, da moltissime installazioni e tavole tematiche.
Rispetto al grigiore dei musei archeologici che ricordo nelle gita con la scuola si sono fatti davvero passi da gigante in questo senso e il Museo dei Grandi Fiumi di Rovigo ne è un bell’esempio. Anche la location nel complesso di San Bartolomeo è piuttosto suggestiva. Purtroppo per gli organizzatori, ma bene per noi, il museo era praticamente vuoto di visitatori. Come quando avevamo visitato il Museo del Mare a Genova ci siamo presi tutto il tempo necessario ad una visita dettagliata e siamo stati dentro per un’ora e mezza almeno, il Museo in sé comunque le merita.
Usciti dal museo verso le 18:30 abbiamo ripreso la strada di Modena.

Commento conclusivo: è dunque così brutta Rovigo? No, io non l’ho trovata tale. Specialmente non l’ho trovata una città depressa e triste. Anzi io l’ho trovato un luogo piacevole, tranquillo e dove secondo me si vive piuttosto bene. Come detto in precedenza il comune sta facendo molto per cercare di fargli cambiare faccia e sta anche cercando di promuovere il turismo (l’entusiasmo con cui siamo stati accolti sia dalla ragazza delle informazioni, sia dalla bigliettaia del Museo che dal suo Cicerone sono contagiosi: tutti ci hanno riempito di informazioni e volantini) e secondo me ci riuscirà. Vi consiglio dunque di visitarla?
Beh ecco, il mio consiglio al momento è questo: se una volta ci passare vicino, un pomeriggio glielo dedicherei. Sicuramente il Tempio della Beata Vergine del Soccorso una visita la merita e anche il Museo dei Grandi Fiumi è interessante. Tra un paio d’anni quando la rivoluzione urbanistica sarà presumibilmente nella sua fase terminale, anche il Castello sarà carino da visitare, secondo me. E Corso del Popolo sarà pure una passeggiata assai piacevole. Se riuscite ad associare a tutto questo anche la visita ad una delle mostre di Palazzo Roverella e siete un pelo più fortunati di noi con le aperture dei vari monumenti (anche Accademia dei Concordi e Chiesa di San Francesco hanno un’aria interessante) c’è di certo materiale per passare un’intera piacevole giornata.
Un altro luogo non troppo lontano da visitare in associazione a Rovigo potrebbe essere Fratta Polesine dove si trova Villa Badoer del Palladio, noi però non ci siamo a tutt’oggi stati.

Costi:
L’autostrada da Modena a Rovigo costa circa tra i 5,50€ e i 6,50€ (a seconda dell’entrata di Modena e dell’uscita di Rovigo). Almeno 15€ di benzina pure sono da calcolare.
La Pizzeria vicino al castello in cui abbiamo pranzato ha costi assolutamente simili a quelli modenese: abbiamo speso una ventina di Euro, ma come accennato io vi consiglierei di tentarne un’altra… o almeno a noi non è piaciuta moltissimo.
Il Museo dei Grandi Fiumi costa 3€ a testa.
Le chiese ovviamente (ma non del tutto ovviamente) sono gratuite.

Orari:
Chiesa della Beata Vegine del Soccorso: Inverno tutti i giorni 8/12 e 15:30/19:30. Estate tutti i giorni 8/12 e 16/20.
Museo dei Grandi Fiumi: Tutto l’anno, da martedì a venerdì 9/13; sabato e domenica 10/13 e 16/19. Chiuso il lunedì le principali festività.
Accademia dei Concordi: da lunedì a venerdì 9:30/12 e 15:30/18:30; sabato 10/12; domenica solo per gruppi e su prenotazione; luglio e agosto da lunedì a sabato 10/13. Chiuso per le principali festività.
Chiesa di San Francesco: ignoto.
Palazzo Roverella: dipende dalle mostre, vedi sito

Link:
Pagina di Rovigo sul sito di Travel Italia
Comune di Rovigo
Palazzo (pinacoteca) Roverella
Sistema museale provinciale del Polesine
Comune di Fratta Polesine (molte info si possono acquisire alla voce “turismo” in basso a sinistra)


Postilla: In piazza Vittorio Emanuele II in una bancarella di libri usati ho trovato a 5 Euro una bella edizione de “Il nome della Rosa” del 1987, ancora di quelle storiche con la copertina rosa e sopra il labirinto della biblioteca: i miei genitori ne hanno frustato a forza di leggerla una uguale. Quella copia era in ottimo stato, pareva quasi intonse, e aveva anche una sovracopertina protettiva trasparente di quelle che si mettono spesso ai libri di scuola ma che non avevo mai visto applicata ad un libro normale. Un regalo a giudicare e dal fatto che è tagliato l’angolo del prezzo, firmato “Elisa 2-8-1987” ma non si capisce se sia una dedica o (più probabilmente) il proprietario del libro. Ovviamente non ho potuto esimermi dall’acquistarlo perché pur avendone sentito parlare complusivamente fin da quando ero bambino non l’ho mai letto, sicché ho ritenuto questo reperimento un segno inequivocabile del fatto che il momento sia giunto…

sabato 2 gennaio 2010

White lies – To lose my life…

Due chiacchiere preliminari: Ho sentito per la prima volta una loro canzone cantata da due ragazzetti cloni l’uno dell’altro (erano gemelli…) nonché dei Tokyo Hotel (ai miei occhi di adulto, almeno…) sul finire di una puntata di X-factor qualche mese fa (tu quoque! già vi sento dire: ebbene sì, io quoquo…). L’ho risentita alcuni giorni dopo passare alla radio nella sala d’aspetto del mio dentista. In nessuno dei due casi avevo capito né titolo né autore, ma grazie ad alcuni minuti di estrapolazioni via internet, tipo scrivendo su google il presupponibile testo del ritornello filtrato dalla mia scarso orecchio per l’inglese, sono riuscito a risalire a canzone e gruppo. Alla fine non ho potuto esimermi dalla seguente considerazione: ma come accipicchia facevamo ad avere qualche notizia del mondo quando internet non esisteva?!



Recensione: Gli “White lies” sono un gruppo inglese. “To lose my life…” è il loro primo (e a tutt’oggi unico) cd ed è uscito all’inizio del 2009. Wikipedia dice che il loro stile è stato paragonato a Interpol (da quel poco che ho sentito non glieli somiglio affatto) e Editors (non conosco), nonchè a storiche band “post punk” quali Joy Division (volendo…), Echo and the bunnyman eccetera.
Se lo chiedete a me, la canzone che da il nome al cd (la stessa che avevo sentito io su X-factor e dal dentista) sembra specialmente un pezzo dei New Order: fate conto Blue Monday, tanto per non sbagliare. Che gli White Lies siano della musica gothic degli anni ’80 è del tutto evidente, basta sentire la loro sezione ritmica, e il generale prevalere del basso sulla chitarra. Anche gli Smiths ci mettono lo zampino, qua e là, specialmente nel modo di cantare certi pezzi. Ma non solo, ci sono anche pezzi più pop (l’iniziale “Death”), e rasoiate di chitarra elettrica che tolgono il fiato.
Personalmente questo cd mi è piaciuto molto e non l’ho trovato, al di là degli innegabili riferimenti, una brutta copia di qualcosa di già sentito.
La voce del cantante spacca, e ci sono almeno tre canzoni che io trovo autenticamente memorabili (“To lose mi life”, “Unfinished businness” e “Farewell to the fairground”) e almeno altre tre che gli cedono pochissima distanza (“Death”, “A place to hide” e “The price of love”). Ma in generale praticamente tutti i pezzi sono interessanti: orecchiabili senza essere banali, intensi senza essere patetici. L’unico che trovo un po’ moscio è il penultimo “Nothing to give”.
Che si può chiedere di più a un cd?

P.s.: il 17 febbraio sono in concerto all’Alcatraz di Milano (20€ + diritti di prevendita).
Ne fanno anche un altro il 18 a Roma, ma non ho letto dove esattamente né quanto costa, ma se vi interessa potete cominciare la ricerca dal sito della band.