venerdì 25 dicembre 2009

Genova - Acquario e Museo del Mare (parte seconda – LA GITA)

So che non stavate più pelle per leggere la seconda parte delle avventure riguardanti il mio viaggio a Genova. Finalmente trovo il tempo di accontentarvi. Ho pensato di strutturare il post in questo modo, prima, in corsivo la cronaca di quello che ci è accaduto e dopo alcune considerazioni.

Il viaggio: Sveglia alle 6:00, partenza alle 7:00. La giornata è piuttosto brutta, ma ormai abbiamo prenotato l’entrata dell’Acquario per cui nulla ci fermerà.

Dopo aver discusso per un poco nei giorni precedenti abbiamo optato per viaggiare in automobile. La linea del treno da Modena a Genova è servita piuttosto male e questo ci avrebbe portato via metà della giornata. Non c’è comunque una via realmente comodo per raggiungere Genova dal cuore dell’Emilia Romagna nemmeno in automobile. Prendendo la A1 in direzione Milano le alternative sono essenzialmente due: o prendere per La Spezia all’altezza di Parma, o proseguire verso Piacenza tagliando prima in direzione Torino e poi prendendo la Milano-Genova. Noi abbiamo scelto questa seconda modalità (suggerita dal sito www.viamichelin.com), ma sospetto che la differenza non sia sostanziale. In ogni caso sono quasi tre ore di viaggio. Noi ce ne abbiamo messe circa tre e mezza, sia perché abbiamo fatto una sosta, sia perché nei presi di Genova c’era una certa coda. L’autostrada ci è costata circa 15€.

L’arrivo: Usciamo dall’autostrada poco prima delle 10:30 del mattino. L’uscita conduce abbastanza intuitivamente verso il porto vecchio. Abbiamo deciso di lasciare l’automobile immediatamente nei pressi dell’Acquario (la nostra visita è programmata per le 17, ma lasciare la macchina al porto è consigliato anche per visitare il centro) anche se in realtà ci infiliamo in un parcheggio qualche centinaio di metri prima. Piove a dirotto, scendiamo dall’auto e percorriamo timidamente i primi metri sul suolo genovese. Il camminamento che porta dal parcheggio verso il lungomare è un’unica pozzanghera fonda tre/quattro centimetri. Sono passati solo 10 minuti e ho già i piedi completamente bagnati. Quantomeno non è troppo freddo, ma la giornata si preannuncia comunque dura. Pochi metri dopo incrociamo l’entrata di Galata (il Museo del Mare) io dico a Simona: “Il Museo del mare ci può interessare?”, lei da un’occhiata all’acqua che scende dal cielo e a quella già depositata a terra e risponde: “direi di sì.” Entriamo.

Lasciare la macchina al porto antico credo sia assolutamente la soluzione più saggia e funzionale. In teoria credo che ci si potrebbe anche organizzare per lasciarla in un punto più lontano perché abbiamo scoperto che Genova ha una linea metropolitana, ma sicuramente avere l’auto lì comoda a fine gita ha i suoi vantaggi. Nella fattispecie noi abbiamo parcheggiato al parcheggio Darsena, che è proprio dietro al Museo del Mare. Certo è un po’ costoso: 2€/h, il chè per noi ha significato a fine giornata 18€ di parcheggio. Inoltre quello specifico parcheggio ha un altro incerto: chiude alle 19:45. Noi che avevamo l’ultimo turno dell’Acquario (che chiude d’inverno alle 19:30) eravamo un po’ preoccupati per questo, anche se di fatto il parcheggio dista non più di 10 minuti a piedi dall’Acquario. Altra considerazione, il Museo del Mare non era nei nostri programmi, per cui abbiamo pagato 10€ a testa, se uno parte da casa con l’idea di farli entrambi può acquistare il pacchetto NavigAcquario pagando 23€ anziché 27€ (17+10). Un consiglio generale è comunque quello guardare con attenzione tutti i pacchetti nel sito dell’Acquario, con una scelta oculata si può risparmiare qualche Euro.

Il Museo del Mare: Personalmente non ero mai stato all’interno di un museo della marineria, per cui non ho alcun termine di paragone. In ogni caso a me Galata è parso immenso. Si sviluppa su 4 piani e 23 grandi sale. Il piano terra è dedicato all’epoca delle navi a remi, il primo e il secondo all’epoca dei velieri, mentre il terzo è dedicato specificamente agli anni dell’emigrazione italiana in America, con relativi piroscafi. Il museo è veramente impressionante. Fotografie, dipinti, modellini, installazioni multimediali, ricostruzioni a grandezza naturale, strumenti di navigazione, cartelli esplicativi. All’entrata del piano dedicato all’emigrazione ti danno una “Carta d’Identità” da inserire in vari punti della visita, e alla fine scoprirai la storia del personaggio da te interpretato. Io avevo “Nicola Sacco” il famoso anarchico giustiziato insieme a Vanzetti per un delitto non commesso, mentre Simona aveva una suora… Quando finiamo la visita sono passate le due per cui decidiamo di mangiare nel ristorante all’interno del Museo prima di rimetterci in cammino.

Come detto prima questa per noi è stata una visita accidentale, in qualche modo. Scoraggiati dalla pioggia all’esterno abbiamo dedicato al Museo tutta il tempo e l’attenzione necessaria e questo livello di approfondimento ce lo ha reso particolarmente gradito sebbene né io né Simona fossimo assolutamente degli appassionati. Credo che questa sia anche una grande lezione su come sia meglio, quando si viaggia, scegliere di fare una cosa in meno ma farla con cura piuttosto che farne una in più “tirando via”. Detto questo, sul sito dell’Acquario a Galata è assegnata una visita di due ore e credo sia bene sapere che noi ci siamo stati quasi quattro. Tre quarti d’ora li abbiamo passati a mangiare d’accordo, ma credo che per fare una visita come si deve sia giusto calcolarne almeno due e mezzo. Per quanto riguarda il ristorante… beh io ho notato che in questo genere di punti di ristoro collaterali ad altro normalmente si mangia malino e si spende tantino. Anche questo luogo non sfugge alla regola. Simona ha preso una focaccia al gorgonzola e un caffè, io un primo e un insalata liscia, da bere un litro d’acqua. In totale quasi 30€. Niente di scandaloso s’intende, né il cibo pessimo, però mi sento di consigliarvi di rivolgervi altrove se ne avete l’opportunità.

Una passeggiata per Genova: usciamo da Galata che sono passate le tre, abbiamo giusto un paio d’orette prima di entrare all’Acquario, l’acqua continua a scendere copiosa. Non c’è molto tempo da scialacquare e sappiamo bene che riusciremo a vedere poco di quello che ci eravamo proprosti. Decidiamo per prima cosa di appropinquarci all’Acuqario per cercare di capire che cosa dovremo fare per scambiare il nostro “tagliando”di acquisto on-line con un biglietto vero. La fila per entrare è veramente chilometrica e io ringrazio il cielo che abbiamo avuto la buona idea di acquistare il biglietto prima perché altrimenti non so nemmeno se ci avrebbero fatto entrare. Ci facciamo un’idea di come ritirare il nostro biglietto. In realtà si rivelerà sbagliata e scopriremo più tardi quella giusta solo per caso camminando verso la Biosfera. Da piazzale caricamento ci inoltriamo per i carruggi e pochi metri dopo incrociamo una delle cose che ci eravamo segnati la chiesa di San Pietro in Banchi. La chiesa in sé non è nulla di straordinario, ma ha una caratterista che la rende (a mia conoscenza) unica: è costruita sopra ad alcuni negozi storici che, come, apprendiamo alla guida furono i primi ad essere costruiti di questa struttura e il loro affitto costituì il capitale con cui fu finanziata la costruzione della chiesa. Qualcuno di questi negozi è aperto tutt’oggi. Poco più in là inoltrandoci nei carruggi veri e propri arriviamo alla Cattedrale. Siccome il tempo non è molto ancora un breve giro e torniamo di nuovo verso l’Acquario.

Ero già stato all’acquario una dozzina di anni fa. Contestualmente avevo fatto anche una passeggiata per il centro. Rispetto al ricordo che ne avevo ho trovato una città più pulita e più turistica, forse anche perché abbellita dalle luminarie natalizie e vivificata dal ponte dell’Immacolata. Comunque sebbene non abbiamo avuto occasione di vedere cose spettacolari (e forse a Genova di cose straordinarie non ce ne sono proprio…) ne ho ricavato un’impressione piacevole. Pioggia a parte naturalmente.

L’Acquario: beh c’è poco da dire, se vengono da tutta Italia a vederlo un motivo c’è. Credo che si è “appassionati” di animali sia il non plus ultra o quasi. Delfini, pinguini, lamantini, razze, squali, pesci tropicali di ogni ordine e grado, meduse, polipi, coralli, crostacei, rettili: ce n’è davvero per tutti i gusti. Si possono persino accarezzare le razze sulla testa. Certo la ressa è notevole, specialmente all’inizio, poi si sgrana un po’ (o almeno è andata così nel nostro caso).

Non mi dilungo oltre anche perché se venite a Genova quasi certamente sapete già tutto quel che c’è da sapere sull’Acquario, l’unica cosa che mi sento di aggiungere è: se vi domandate se ne valga la pensa di venire fin quei per l’Acquario la mia risposta è sì. Ad un certo punto si incrocia una sezione chiamata “la foresta dei colibrì”, dove puoi fare un biglietto a parte e per 2€ entri in uno stanzone che replica una foresta tropicale e se se fortunato riesci a vedere il famoso uccellino che si esibisce nel suo tipico volo “sul posto”. Ci vuole un po’ di pazienza (i colibrì sono molto piccoli e non molti densi numericamente) ma noi ci siamo riusciti. Il mio consiglio è: seguite il cinguettio. Ultima notazione, nell’Acquario si possono fare foto ma NON usare il flash il chè ha equivalso praticamente a dire che non si possono fare le foto (almeno per la mia dotazione di fotografo: questa qui sotto è l'unica venuta degnamente…)



Il ritorno: Usciti dall’Acquario siamo andati a recuperare l’automobile, in realtà con almeno 15 minuti di anticipo sulla chiusura del parcheggio. I miei piedi a quel punto non erano soltanto bagnati ma oserei dire del tutto frolli. Altre 3 ore e mezzo di macchina (compresa relativa sosta per la cena) ed eccoci di nuovo a casa.

Qualche considerazione di chiusura: è stata una bella gita? Sì, nonostante la pioggia. Purtroppo ci sono molte cose che non abbiamo avuto occasione di vedere. Sicuramente il Millo (museo dedicato all’Antartide) sarebbe stato interessante, sicuramente la Biosfera (una sfera di una ventina di metri di diametro in cui è replicato un clima tropicale) si sarebbe associata al meglio all’Acquario. Sicuramente avrei voluto passeggiare con più tranquillità per le vie della città e vedere le tre o quattro altre cose che mi ero segnato sulla giuda. Ma Galata è stato molto interessante e l’Acquario è un must, per cui credo che la cosa migliore sarebbe visitare Genova per un week-end e non per un giorno solo, così in qualche modo anche le sei ore di viaggio si ammortizzano. Ancorato tra Galata e l’Acquario c’è anche il galeone spagnolo ricostruito per il film “Pirati” di “Roman Polanski” che si può visitare e per i cinefili potrebbe rivelarsi una vera chicca.

Riassunto dei costi: visto i tempi di crisi, vi faccio un breve resoconto dei costi da noi sostenuti per la gita, così vi fate un’idea.
Modena 30€ di autostrada tra andata e ritorno.
Almeno altri 30€ di benzina.
17€ a testa per entrare all’Acquario (noi abbiamo pagati 8,50 € perché eravamo in un periodo particolare)
2€ a testa per entrare nella Foresta dei Colibrì
10€ a testa per entrare a Galata
18€ per lasciare 9 ore l’auto al parcheggio Darsena
30€ circa per un pranzo spartano al ristorante dentro a Galata
25€ circa per colazione e cena in autogrill

Consigli per abbattere i costi:
Parcheggiare altrove, ammesso che cambi qualcosa.
Non pranzare nel ristorante del Museo del Mare.
Studiare precedentemente se si vogliono visitare altre strutture dell’Acquario Village e fare un biglietto cumulativo specifico.
Fare colazione a casa e tenersi la fame fino alla fine del viaggio di ritorno.

Ciò detto Buon Natale e Buon Anno a tutti.
Noi per queste feste abbiamo in programma una meravigliosa gita a Rovigo.
“A Rovigo?!?!?” già vi sento dire scandalizzati
Sì a Rovigo, sono sempre stato curioso di vedere Rovigo: cos’ha poverina che tutti la scansano?
E comunque non saranno mica cazzi vostri se noi vogliamo andare a visitare Rovigo!
Lo diventeranno solo nell’anno nuovo quando vi delizierò con il Rovigo reportage…

domenica 13 dicembre 2009

Genova – Acquario e Museo del mare (prima parte - l'organizzazione)

Premessa – Sui nostri viaggi in generale: con questo articolo voglio inaugurare una nuova sezione del mio blog, quella dedicata al turismo. Io e Simona non siamo dei grandi viaggiatori, ossia ci piace visitare i luoghi ma siamo anche un po’ pigri, per cui in sostanza non andiamo in giro molto spesso. Col tempo però abbiamo imparato ad organizzare i viaggi nella maniera che più ci si confà, preferendo la qualità alla quantità sia nel numero delle gite sia degli itinerari. Insomma ad esempio se programmiamo una visita ad una città che non conosciamo, meglio acquistare una guida, scegliere prima a tavolino poche cose e dedicare a ciascuna il tempo giusto magari nella prospettiva di tornarci un giorno non troppo lontano piuttosto che farsi prendere dalla fregola rimbalzando da una parte all’altra della città cercando di vedere tutto e con la frustrazione di non riuscirci comunque. E meglio anche scegliere nel limite del possibile luoghi e percorsi caratteristici. Questa estate ad esempio ci hanno molta soddisfazione visite a Bomarzo, Civita di Bagnoregio, Viterbo, alla foresta pietrificata di Dunarobba, quella prima ci siamo dilettati nell’entroterra marchigiano. Insomma, se non c’è molta gente per noi è meglio. Non tutte le visite rispecchiano questi standard naturalmente: dall’Acquario di Genova non puoi aspettarti che sia poco affollato, se ti va di vederlo lo devi prendere com’è. Però ad esempio la prima volta che siamo andati a Roma lo abbiamo fatto in gennaio allungando il week-end con la festa del patrono di Modena. Abbiamo avuto fortuna col tempo ed è stata una scelta azzeccatissima.


Seconda premessa - sul senso di scrivere un blog di viaggio: credo sia legittimo chiedersi quale sia il senso di scrivere su un blog dei propri viaggi. Per quanto mi riguarda sicuramente c’è l’aspetto del piacere che mi fa raccontare la mia esperienza (quello che abbiamo visto), anche dal putno di vista emotivo (che cosa abbiamo ritenuto interessante e che cosa no), ma anche e forse soprattutto dare qualche indicazione a chi legge su come organizzare al meglio la propria visita. Che cosa di quello che noi abbiamo fatto è andato bene e che cosa invece si poteva migliorare.
Ciò detto ciancio alle bande.

Organizzare la gita a Genova: come credo per molti il “primo motore” della nostra scelta di visitare Genova è stato il desiderio di rivedere l’Acquario. Dico “rivedere” perché entrambi (sia io sia Simona) c’eravamo già stati, con altri, una decina di anni fa o giù di lì. Sicchè per prima cosa per acquisire qualche informazione su orari e costi della struttura abbiamo visitato il sito internet dell’Acquario (www.acquariodigenova.it) scoprendo immediatamente una cosa che non sospettavamo ossia che esso ora è al centro di un “mondo” assai più esteso chiamato “Acquario Village” e che comprende oltre all’Acquario stesso, la Foresta dei Colibrì, la Biosfera, il Museo del Mare, la Città dei Bambini e l’ascensore panoramico del Bigo (una struttura modellata sui bracci di carico del porto, progettata da Renzo Piano). Pur incuriositi dalla ricchezza dell’offerta noi abbiamo mantenuto la nostra idea iniziale che prevedeva la visita solo all’Acquario vero e proprio, accompagnata da una passeggiata per la città. Abbiamo perciò registrato i dati che ci interessavano (apertura invernale 9:30/19:30 entrate scaglionate ogni mezz’ora; prezzo 17€ eccezionalmente dimezzato fino all’8 dicembre per festeggiamenti gli Xmila visitatori… che culo! Noi volevamo andare il 7…) e abbiamo cominciato a discettare sull’opportunità di comprare il biglietto on-line. Alla fine abbiamo deciso di sì ed è stata davvero un’ottima idea che consiglio a tutti. L’unica problema (non piccolo per la verità) da noi riscontrato è stato che il sito dell’Acquario si è rivelato lentissimo, ci abbiamo messo più di un’ora ad effettuare l’acquisto. Non so se fosse quel giorno particolarmente sovraccarico o fosse il nostro browser a dare dei problemi, comunque se anche vedete che la procedura è estremamente lenta, armatevi di santa pazienza e portate in porto l’operazione, tutto il tempo perso in quel momento si rivelerà tempo guadagnato per la vostra gita: all’entrata dell’Acquario infatti c’era una coda smisurata che noi abbiamo potuto saltare a piedi pari. Ci sono altre tre cose importanti da sapere se comprate il biglietto via internet, la prima vi sarà chiara comprando il biglietto, ossia che contestualmente dovete scegliere l’orario a cui volete entrare, la seconda è che è vitale che vi stampiate il pdf della prenotazione che vi arriverà via e-mail (ma questo ve lo comunicheranno chiaramente al momento dell’acquisto on-line), la terza è dove andare con questo foglio una volta giunti all’Acquario. Sul pdf è indicato quanto segue: “all’ora prenotata presentati con la conferma di prenotazione presso l’ingresso riservato ad internet che si trova sul lato destro della scala di accesso all’Acquario”. Occhio perché l’indicazione è alquanto fuorviante. L’edificio dell’Acquario si trova un molo e ospita al piano terra una galleria che è di fatto una sorta si piccolo centro commerciale, se vi trovate di fronte alle scale di accesso (che si trova al primo piano) per trovare la biglietteria internet dovete scorrere sul lato sinistro del molo (verso la Biosfera, la tensiostruttura sferica dal diametro di una dozzina di metri che si trova nell'immagine qui sotto), e non è visibile dai piedi delle scale (perché la sua entrata è rivolta non sul fronte dell’edificio ma sul lato). Se vi trovate in difficoltà sul foglio di prenotazione c’è comunque un numero di telefono.

Un’altra cosa che potrebbe essere interessante sapere è che da lì vi faranno entrare tramite un ascensore a percorso già iniziato (diciamo grossomodo alla terza stanza) dopodiché le indicazioni vi faranno arretrare fino a quella iniziale. Quando, arretrando, arrivate al punto in cui fanno le foto potete evitare di arretrare ancora. Noi lo abbiamo fatto sicchè siamo entrati nell’anticamera in cui praticamente non c’è nulla di interessante, dopodiché abbiamo fatto la coda per rientrare facendoci fare la fotografia di rito che loro ti scattano lì e poi stampano e ti venderanno (solo se la vuoi naturalmente) a fine visita dopo diversi minuti di caccia al tesoro: è infatti sepolta in un muro di foto tutte uguali a ha il “modico” prezzo di 10€ (però gratis ti danno anche due cartoline e il calendario sempre con sopra la vostra foto… in ogni caso noi da bravi giapponesi obnubilati dalla bellezza dell’Acquario noi abbiamo deciso ugualmente di acquistarla…).
Un’ultima considerazione sull’orario di entrata all’Acquario. La nostra idea iniziale era di effettuare la visita al mattino, è però anche vero che se provenite un po’ da lontano (da Modena a Genova sono quasi tre ore di macchina, poi metteteci una sosta, un po’ di margine per l’eventuale traffico, il parcheggio, capire che cacchio dovete fare per entrate) o partite davvero molto presto o rischiate di sforare l’orario fissato o acquistate il biglietto verso mezzogiorno, ma siccome la visita dura due ore e passa finirete presumibilmente per pranzare alle tre (il chè è un po’ tardi credo non solo per me ma per tutti). Insomma in conclusione noi abbiamo acquistato il biglietto per le cinque di pomeriggio (l’ultima entrata utile) e abbiamo trovato la scelta molto azzeccata.

martedì 8 dicembre 2009

L’uomo che fissa le capre


Chiacchiere preliminari: non mi capita di andare spesso al cinema ultimamente. L’ultima volta era stato questa estate. In entrambe le circostanze io e Simona abbiamo scelto il film tra quelli che davano a partire dalla voglia di andare al cinema, più che andare al cinema perché c’era un film che volevamo vedere. Devo dire sia l’altra volta (Una notte da leoni) che questa siamo usciti dal cinema soddisfatti.

La trama in breve: Bob Wilton, cronista di un giornale di dubbia reputazione è stato appena lasciato dalla sua fidanzata, perciò decide di partire per l’Iraq alla ricerca di uno scoop che gli faccia riguadagnare un po’ di stima di sé (e magari anche quella della sua ex…). E’ fermo in Kuwait per ragione burocratiche, quando incontra Lyn Cassidy, ex guerriero psichico facente parte del Primo Battaglione Terra addestrato negli anni ottanta nell’esercito degli Stati Uniti per contrastare l’avanzata dei sovietici. Insieme i due entrano in Iraq dove Lyn è stato richiamato a compiere un ultima perniciosissima missione…

Commento: Che dire, mi è proprio piaciuto. E’ un film veramente “scoppiato”, come peraltro i suoi protagonisti. Non tanto Bob (Ewan McGregor), ma sicuramente Lyn (Clooney), Bill Django l’ufficiale incaricato di addestrare il Primo Battaglione Terra (Jeff Bridges) e Larry Hooper (Kevin Spacey) il cadetto “malvagio” del battaglione. Peraltro con un cast così si fa quasi fatica a fare un brutto film. Su tutti per me emerge il personaggio di Jeff Bridges (la mente del progetto Terra) che colpito da una pallottola in Vietnam ha un’illuminazione: sarebbe molto meglio fare la guerra senza che nessuno si faccia male. Partendo da questo assunto riesce a farsi finanziare sei anni di ricerche sul campo alla ricerca di metodi di guerra psichica essenzialmente pacifica. Bill Django passa questi anni girando per il mondo tra comuni post-hippy, trip di acido e studi di spiritualità new-age, e ritorna all’esercito forte di una filosofia eterodossa essenzialmente basata su Guerre Stellari (non per nulla i guerrieri del Primo Battaglione Terra si autodefiniscono Jedi).
Da lì in poi è tutta una discesa. Una volta che questo battaglione è stato creato fermare il cuore di una capra dopo averla fissata per tre ore (e il conseguente passaggio al Lato Oscuro si tutto il progetto), o la mossa nonmiricordocome che si fa toccando il nemico con un dito sulla fronte e dopo che l’ha subita l’altro è destinato a morire (ma non subito, il primo che la subì morì 18 anni dopo…) il passo è breve.
Comunque una cosa ci tengo a precisare, questo non è un film “demenziale”: grottesco, sì, ma niente affatto stupido. Anche poetico per certi versi e certamente “luminoso”, per così dire.
A voi andarlo a vedere per capire a fondo cosa intendo.
E che la Forza sia con Voi.

mercoledì 2 dicembre 2009

Chiude “Il cammino dei sette millenni”


L’avevo profetizzato en-passant in un precedente post ad argomento fumettistico. Non ci voleva molto, perché era Francesco Vivona stesso ad agitare il fantasma di questa ipotesi già nell’editoriale del numero estivo. Poi c’era stato il ritardo nella pubblicazione del numero di settembre, arrivato nelle edicole a metà di ottobre. Brutto segnale: quando una pubblicazione si fa irregolare è solitamente sintomo di gravi difficoltà e spesso è l’anticamera della chiusura. Senza contare che anche quel numero si apriva con un editoriale decisamente pessimista.
Ho atteso che novembre sforasse in dicembre, gettando regolarmente un occhio sugli scaffali delle edicole, prima di andare a vedere nel forum del sito (ahimè fermo anche lui sin da agosto…) e scoprire che Francesco aveva dato notizia della chiusura della serie già nella prima decade di novembre.
Peccato.
Peccato davvero.
Francesco scrive una lunga lettera ai lettori per spiegare le sue ragioni, si scaglia contro vari establishment che sicuramente non lo hanno aiutato e tra le righe, come è logico, si legge la sua grande amarezza per il naufragio (solo temporaneo, ci promette) del progetto.
Confesso che, pur partecipe della sua delusione, non ho apprezzato fino in fondo la lettera di Francesco. L’Italia è quella che è per certi versi e lo sappiamo tutti, io che lavoro all’università anche meglio di molti altri. Probabilmente chi comincia dal nulla in Italia trova una strada più erta che altrove. Probabilmente: anche se non ho mai avuto la controprova. Ma il ritornello: “Nessuno ti aiuta, favoriscono sempre altri.” Mi risulta comunque sempre un po’ indigesto. Specialmente, al di là del legittimo sfogo, credo non debba interessare i lettori. Mi ricorda quel personaggio di “Caterina va in città” che, aspirante scrittore, ripete all’infinito che Italia “se non fai parte di certe conventicole…”. Virzì (il regista) però il suo romanzo non ce lo fa mai vedere, sicché ti resta sempre il dubbio che tutto questo non sia che un autogiustificazione per i propri insuccessi. Il personaggio in sé è anche piuttosto scoppiato, tra l’altro.
Questo non è il caso del “Cammino dei sette millenni”, naturalmente. C7M lo abbiamo visto, e io stesso ne ho parlato in termini lusinghieri come una produzione di buona qualità. E lo confermo a pieno.
Purtroppo, questo è vero, produrre un’opera di buona qualità può non bastare a garanti il successo, ed è anche vero che a volte hanno successo cose di qualità scarsa. Questo non toglie che tra qualità e successo ci sia una correlazione, ma di certo non c’è tra le due cose una relazione stringente. Molti fattori condizionano il successo commerciale, e qui veniamo al caso specifico: che cosa è mancato a C7M?
Non la storia, non la sceneggiatura, i disegni o la produzione: tutte cose davvero di buona qualità. Io credo una cosa, sia mancata più di tutto: la pubblicità. Chi ha avuto occasione di leggerlo lo ha apprezzato, ma molti, moltissimi all’interno del pubblico potenziale non ne hanno avuta occasione, semplicemente perché non sapevano della sua esistenza. In pochissimi gli hanno dato uno spazio: anche su internet, tanto è vero che se andate su google e digitate “cammino dei sette millenni” al termine della seconda pagina già si comincia a parlare d’altro. Per il resto due dei venti riferimenti che trovate in queste pagine sono articoli che ho scritto io: uno su questo blog (che non è che sia molto visitato…) e un altro per Delirio.
Inoltre, parliamoci chiaro il successo di produzioni come questa è anche e soprattutto una corsa contro il tempo. Non avendo alle spalle una casa editrice solida e affermata, con tutti i costi iniziali da sostenere cominci per forza in perdita, poi senza un lancio adeguato l’acquisto del primo numero è lasciato alla curiosità di chi spulcia tutta l’edicola, in seguito siccome tutto il fumetto racconta u unica avventura, agganciarsi a una storia già cominciata è una cosa che non ti invoglia. Sicché impegni un sacco di risorse finanziarie, le vendite crescono poco, le perdite aumentano… e il gruppo di lavoro si sfalda. Purtroppo è quasi matematico, è successa la stessa cosa anni fa al team di 2700 (o così almeno mi ha riferito una persona che parlò con qualcuno di loro…). Quindi se dovessi dare un consiglio a chi si debba lanciare in una simile avventura – non che ne abbia l’esperienza, ma è solo buon senso - io gli direi questo: anche se avete un progetto stupendo dentro la vostra testa, pazientate un po’.
Prima di gettarvi gelidamente sul mercato cercate prima di farvi conoscere un po’. Fate uscire qualcosa su internet, fate vedere in giro il vostro lavoro, fate attività di rete garantendovi di avere agganci per avere, sin dall’uscita del primo numero almeno una decina di recensioni su siti importanti. Poi magari iniziate con degli albi singoli, o al massimo con una miniserie di 4/5 puntate e infine cominciate dalle fumetterie, che a livello di distribuzione sono certamente meno onerose e richiamano per natura un pubblico più attento ad un prodotto che all’inizio sarà per forza di nicchia. La strada per un potenziale successo sarà di certo più lunga, ma avrà qualche possibilità in più di avere una buona riuscita. Soprattutto, probabilmente, questo è un percorso attraverso cui davvero la qualità del prodotto paga.
Detto questo (che non voleva essere una critica ma uno spunto di riflessione), confermo a Francesco Vivona tutto il mio affetto e la mia stima, spero davvero che riesca a riprendere i fili del Cammino, sia perché trovo che il progetto lo meriti, sia perché da lettore mi piacerebbe sapere come va a finire…

domenica 15 novembre 2009

Finisterra

Il 24 novembre ho l'esame di stato per l'abilitazione alla professione di Biologo. Prima di interrompere i post di questo blog per una quindicina di giorni per motivi di studio, voglio lasciarvi con una novità riguardante la mia attività di scrittore. Da un mese circa con il laboratorio di scrittura Xomegap abbiamo lanciato il blog di un mondo fantasy che andiamo progettando ormai da un paio di anni, e si chiama (come il post) Finisterra.
A seguire il nostro "comunicato stampa".



E’ attivo il blog di Finisterra

A partire della fine del 2007 il laboratorio di scrittura XoMeGaP è al lavoro nella stesura di un opera fantasy in tre libri che si intitola “Finisterra”. Dopo due anni di lavoro, la stesura del primo libro è praticamente conclusa (è attualmente in fase di editing) e anche gran parte del secondo libro è già stato scritto.
Oltre a ciò che apparirà nei testi però la progettazione di un mondo fantasy comporta molto altro: bisogna immaginare una cartina, dare al mondo una storia, delinearne la società, la religione, i personaggi principali.
Per rispondere all’esigenza di dare uno spazio a tutto questo lavoro oscuro è nato da un mese circa il blog di Finisterra, un luogo dove stiamo a poco a poco cercando di dare una forma organica e fruibile ai nostri appunti. Abbiamo cominciato parlando della geografia del nostro mondo, poi continueremo con la politica, racconteremo la trama del nostro libro (o almeno le sue linee generali), poi verranno parti del testo, le descrizioni dei personaggi principali e veri e propri racconti incentrati su ciascuno di essi.
Questo messaggio è rivolto a coloro che hanno voglia di aiutarci e stimolarci con i loro commenti e le loro critiche, che hanno voglia di condividere (anche solo per un poco) questo nostro sogno o che sono semplicemente curiosi: vi aspettiamo all’indirizzo xomegapfinisterra.blogspot.com.


venerdì 6 novembre 2009

Marco Paolini – I miserabili

Lunedì 9 novembre alle 21:30 su La7 trasmetteranno, in diretta dal porto di Taranto e senza stacchi pubblicitari, lo spettacolo di “I miserabili” di (e con) Marco Paolini.
Lo spettacolo, a quanto leggo sul sito di La7 è un riadattamento de: “I miserabili - io e Margareth Thatcher” che Paolini, accompagnato dai “Mercanti di Liquori”, ha messo in scena per la prima volta nel 2006 ed è formato da monologhi e canzoni che parlano di come la società italiana è cambiata dagli anni ’80 ad oggi.
E’ la terza volta quest’anno che La7 manda in onda gli spettacoli di Marco Paolini. La prima è stata il primo di gennaio con “La macchina del capo”, uno spettacolo che conteneva parti orginali ed altre prese dagli “Album” mentre la seconda sul finire dell’estate quando in seconda serata aveva trasmesso “Il milione: quaderno veneziano” (perché non lo abbia mandato in prima serata è abbastanza misterioso, visto che la programmazione di La7 non è che abbondi di programmi che fanno più audience di Paolini…).
Non starò a ripetere tutta la mia ammirazione per Marco Paolini, che ho già sbrodolato ampiamente nel mio post su “La macchina del Capo”, mi limiterò a consigliare a tutti di guardare anche questo spettacolo, in parte perché sicuramente avrà i suoi motivi d’interesse – non ho mai visto uno spettacolo di Paolini che non li avesse e li ho visti quasi tutti - e in parte anche per un motivo ideologico: ossia per premiare un’iniziativa televisiva che ha dei rari profili di preziosità.
Innanzitutto è un buon servizio alla collettività mettere una volta ogni tanto del teatro in prima serata: un genere di spettacolo che rimase sempre un po’ ai margini e patrimonio dei soli appassionati. In secondo luogo è un buon servizio trasmettere programmi di qualità e spessore cosa che, ahimè, non succede troppo spesso: in RAI quando vogliono fare una cosa (in senso lato) del genere chiamano Celentano e non me ne voglia il molleggiato ma non è proprio la stessa cosa. Poi vabbè, io Celentano – come si dice dalle mie parti – lo infruccerei sicché il raffronto è particolarmente sbilanciato. Vi rimando a fondo pagina per un approfondimento linguistico sul verbo “infrucciare”. In terzo luogo perché La7 ha promesso di trasmettere lo spettacolo senza pubblicità, una scelta coraggiosa visto che gli spettacoli di Paolini sono gli uniche circostanze che portano lo share di detta rete attorno al 10% e quindi sarebbero anche quelle che gli inserzionisti sarebbero disposte a pagare meglio. Non ho niente contro la pubblicità, ci tengo a precisarlo, mi fa solo piacere che ogni tanto sia la legge del mercato a piegarsi alla vita (che in questo caso si manifesta in uno spettacolo teatrale ad atto unico) e non viceversa.

Nota terminologica: “infrucciare” (dal dialetto: infrucèr) letteralmente sta per “infilare” solitamente “con scarsa grazia in un pertugio angusto”. La locuzione “l’infrucirèv” è la contrazione di “Al m’è acsè simpàtec ca l’infuciarèv” che significa letteralmente: “Mi è così simpatico che lo infilerei con scarsa grazia in un pertugio angusto”. Ovviamente il ragionamento è per assurdo. Come e perché si sia creato questo modo di dire lo ignoro mentre sulla natura e la localizzazione dell’angusto pertugio siete liberi di lasciar correre la vostra fantasia; nel caso in questione, quello di Celentano, va bene ovunque purché sia fuori dalla mia vista.

mercoledì 21 ottobre 2009

GREYSTORM


Due chiacchiere preliminari: E’ stata un’estate piuttosto magra per la mia passione fumettistica. Prima dell’estate leggevo cinque testate:
Rourke: che ho anche recensito su questo blog
Lilith: che esce semestralmente per cui non è davvero di poco impegno
Cornelio: che ho deciso di lasciare da parte, (anche se non è detto che io ci ripensi…)
Trigger: che hanno chiuso al numero 4 su 6 complessivi peraltro senza dire niente a nessuno, una mossa che ho trovato davvero poco corretta
Il cammino dei sette millenni: che sul numero di luglio/agosto lasciava intendere difficoltà economiche (sigh!) e che tutt’oggi pur non essendo stato soppresso vive ancora in uno stato sospensivo. Le ultime notizie lo davano il uscita il 12 ottobre, con un mese di ritardo, ma sabato nell’edicola da cui mi rifornisco ancora non si era visto.
Sicché quando mi sono trovato davanti a Greystrom mi ci sono buttato sopra a pesce.

La trama in breve: Fine ‘800, in un college si sviluppa l’amicizia tra i due rampolli di due nobili famiglie inglesi: Jason Howard, campione di canottaggio e posato figlio di un proprietario terriero è invaghito di Elisabeth, figlia di un contadino della zona; Robert Greystorm, egocentrico e geniale sogna di inventare una macchina volante e pilotarla verso l’ultima frontiera dei territori inesplorati, l’Antartide. Dando fondo alle risorse di famiglia, e poi con l’aiuto economico di Jason, Robert inizia i suoi esperimenti ma il giorno della gara di canottaggio qualcosa va storto. Tre anni dopo, i due ragazzi si rincontrano. Robert ha progettato una nuova macchina mentre il fato ha privato Jason degli affetti per cui ora si sente pronto ad onorare la promessa fatta all’amico ai tempi del college: imbarcarsi nella loro grande avventura.

Commento: questo più che un numero 1 sembra a tutti gli effetti un numero 0, un prologo. Mentre lo leggevo mi pareva per certi versi di rivedere Piramide di Paura, quel film il cui Sherlock Holmes e Watson si incontrano al collage molti anni prima della loro vita da detective. Anche lì c’erano il ragazzo posato e quello geniale, la macchina volante ispirata a Leonardo da Vinci, una ragazza povera (mi pare che si chiamasse persino Elisabeth…) e l’atmosfera di preludio. Personalmente l’idea di far partire questa nuova miniserie (a quanto ho capito 12 numeri) da lontano mi è piaciuta e questa sensazione di rivedere Piramide di Paura, probabilmente l’inanellarsi di casualità, è stata tutt’altro che spiacevole. In ogni caso la storia è completamente diversa. Ad iniziare dai personaggi, l’egocentrismo di Sherlock in Piramide di Paura era una piega un po’ troppo personalistica di un animo comunque nobile, quello di Robert Greystorm ha un livello di ambiguità assai maggiore. Una cosa gli autori ci hanno tenuto a chiarire bene fin da subito (in qualche passaggio calcando a mio avviso sin troppo la mano): non dobbiamo aspettarci in alcun modo che Greystorm sia un personaggio positivo.
Restando nel territorio dei personaggi una cosa non ho potuto fare a meno di notare che l’amicizia tra i due protagonisti ricalca per certi versi lo stesso clichè di quella tra Ugo Pastore e Vittorio De Cesari in Volto Nascosto, un’altra miniserie Bonelliana che ho trovato assai apprezzabile.
Ambientazione e storia d’altronde mi hanno immediatamente catturato, l’ansia del futuro dei sogni di Robert Greystorm in particolare è decisamente contagiosa. Sebbene il suo futuro sia per certi versi già il nostro passato, ci rimbalza in una sorta di strana ucronia: un futuro immaginario fatto di macchine, metallo, luoghi ed azioni, stranamente vitale e fisico in questi tempi così “immateriali” (qualcuno ha detto “Matrix”? L’ho sognato?).

sabato 6 giugno 2009

SAN VALENTINO DI SANGUE 3D


DUE CHIACCHIERE PRELIMINARI: Nella mia vita avevo visto solo un film in 3D, anzi in realtà solo parzialmente in 3D: “Nightmare 6 – La fine”, onestamente piuttosto bruttino. A partire da questa primavera la tecnica del 3D è tornata all’improvviso in auge: “Viaggio al centro della terra”, “Mostri contro alieni”, tra poco “Coraline” e probabilmente anche altri che in questo momento non mi sovvengono. Chissà perché? Semplice moda o magari il fatto che la tecnica 3D si è recentemente arricchita di qualche decisivo avanzamento tecnologico. Questo non l’ho scoperto (non mi nemmeno sbattuto per scoprirlo in realtà…) se qualcuno che legge lo sa è gradito un commento esplicativo al riguardo. Comunque sono andato a vedere questo film perché ero curioso di vedere a che punto fossero con la tecnica 3D, non tanto perché mi ispirasse il film. A proposito di questo in fase di commento, subito dopo la trama farò due commenti separati, uno al 3D e uno al film.

LA TRAMA IN BREVE: Cinque minatori rimangono chiusi in una miniera, uno di essi impazzisce e uccide gli altri. Lo tirano fuori in coma. Dopo un po’ si risveglia uccide alcune persone all’ospedale e poi si dirige di nuovo alla miniera dove un gruppo di ragazzi ha organizzato una festa (qualcuno per caso ha detto “cattivo gusto”?) e ricomincia gli ammazzamenti finchè non viene trucidato dallo sceriffo. Dieci anni dopo uno dei ragazzi scampati al massacro, figlio del proprietario nella miniera e in qualche modo coinvolto con l’incidente da cui tutto ha preso le mosse, ritorna in paese e gli omicidi ricominciano.

3D: in effetti rispetto ai tempi di “Nightmare 6”, il 3D ha fatto dei considerevoli passi avanti. Innanzitutto i colori che sono quasi naturali e il fatto che la sensazione 3D attraversa tutto il film e non alcune singole scene studiate ad hoc. Come mi aveva preannunciato un amico che era già stato a vederlo la tecnica da il meglio di sé nelle scene “normali”, mentre diventa notevolmente più confusa nelle scene d’azione (o al meno questa era la mia percezione). Sono molto efficaci alcune scene di esterni il piena luce, e in generale tutte le scene in cui ci sono alcune linee di fuga ben precise (tipo la corsia di un supermarket, o alcuni interni della miniera) oltre a quelle in cui ad esempio un arma viene puntata direttamente contro la telecamera. I sanguinacci invece risultano spesso un po’ più plasticosi.

SAN VALENTINO DI SANGUE: ecco, peccato che questa bella tecnica nella fattispecie sia sprecata per un film al limite dell’indecoroso. Il film in sé è veramente uno slasher di quart’ordine. La trama, se così proprio vogliamo chiamarla, è trita che più trita non si può. Il campionario di ammazzamenti gratuiti è deprimente. Dei personaggi non ne parliamo nemmeno, e l’unico sentimento che il film suscita, e questo sì in maniera perfettamente tridimensionale, è una noia epocale. Ma specialmente cosa che da sola basterebbe ad affossare tutto il film (SPOILER ALERT!) il colpo di scena finale è viziato da una scorrettezza narrativa che grida vendetta al cielo. Una cosa a questo livello (anche se l’esempio non rispecchia il film): ti fanno vedere un personaggio esplodere in mille pezzi in diretta, con tanto di testa che boccheggia staccata dal collo e poi… toh! Non era morto. Ma non nel senso che era morto un suo gemello, o un robot con le sue fattezze, o lui non era morto perché era un demone che già farebbe cagare. No, semplicemente: o scusate non vi avevo detto che lui non era proprio esploso in mille pezzi, ma solo e soltanto in quella scena del film non stavamo parlando di ciò che stava succedendo ma di ciò che qualcuno immaginava stesse succedendo.
Certe cose non si fanno, è sleale. Altrimenti se questo è lecito, tutto è lecito e io domani faccio un film dove il serial killer di turno che sta per uccidere il personaggio principale, legato ad una sedia in una stanza chiusa a quadrupla mandata nel deserto senza nessuno per mille miglia intorno… e all’improvviso viene salvato dal provvidenziale intervento del Coniglio Pasquale.
Tanto che mi frega: decido io.
Però prometto che ve lo faccio in 3D.

sabato 30 maggio 2009

UOMINI CHE ODIANO LE DONNE – LIBRO vs. FILM

DUE CHIACCHIERE PRELIMINARI: innanzitutto voglio precisare questo, la disputa che nasce tutte le volte si trae una riduzione cinematografica da un libro è una cosa che in generale non mi appassiona. Specialmente trovo enormemente irritanti i pipponi integralisti di coloro che hanno apprezzato il libro (solitamente totemizzandolo, le persone che fanno questo genere discorsi sono quasi sempre persone “tutto o nulla”) e pontificano rimarcando tutte le circostanze in cui il film si discosta dal libro (quasi fosse il Vangelo), senza soffermarsi sul fatto che libro e film sono due forme di comunicazione diverse e pertanto hanno spesso esigenze differenti. Questi ragionamenti, di norma, mi fanno colare le palle fino al suolo. Non è una cosa di questo tipo che state per affrontare. Ciò detto, 10 giorni fa ho finito di leggere il libro e ieri sera sono stato a vedere il film per cui l’occasione di metterli a confronto era davvero troppo ghiotta perché me la lasciassi sfuggire. Ah, avviso ai naviganti. Ho posto molta attenzione a NON METTERE SPOILER, ossia a non fare rivelazioni importanti sulla trama.

LA TRAMA IN BREVE: Mikael Blomkvist, giornalista economico di una testata indipendente (Millennium), è stato appena condannato a scontare tre mesi di carcere per aver diffamazione (ovviamente è stato incastrato). Perciò lascia la guida del giornale che dirige con la sua amica (e amante) di una vita Erika Berger e accetta un bizzarro incarico da parte da un magnate storico dell’industria svedese Henrik Vanger, ossia indagare sulla scomparsa della sua nipote Harriet avvenuta quaranta anni prima e che si ritiene sia stata assassinata da un membro della famiglia. In queste indagini verrà aiutato da una ragazza molto particolare ossia Lisbeth Salander “investigatrice freelance” alla Milton Security che solo qualche mese prima era stata incaricata da Henrik Vanger di indagare proprio su Blomkvist.

DIGRESSIONE sui CASI LETTERARI (PASSARE OLTRE SE NON INTERESSATI): “Uomini che odiano le donne” e diciamo pure tutta la Millenium Trilogy di Stieg Larsson (infatti questo è soltanto il primo di tre libri incentrati sulla figura di Blomkvist e sulla rivista Millenium) è stato uno dei casi letterari più importanti degli ultimi anni. Ora, io e i casi letterari andiamo d’accordo fino ad un certo punto. Non me ne faccio coinvolgere di frequente, perché ho rilevato che spesso sono montati ad arte e non incontrano il mio gusto. E’ anche vero che con gli anni ho imparato a distinguere a naso i diversi tipi di fenomeno a cui viene appiccicata tale etichetta. Ora non mi sognerei mai di lanciarmi nella lettura di cose tipo “Va dove ti porta il cuore” o “Melissa P” due delle letture più avvilenti che mi sia mai capitato di affrontare. Altre volte sono stato più fortunato. O forse più furbo. Non saprei dire esattamente perché certi casi mi ispirano e certi altri no. Di certo un caso letterario “di genere” (giallo nella fattispecie), di norma mi ispira di più, forse perché ha per forza incontrato ed è per forza piaciuto ad un lettore che in quanto settoriale è mediamente più scafato in materia. Conosco persone che nella vita hanno letto solo l’elenco del telefono e “Va dove ti porta il cuore”, ma nessuno che abbia letto solo l’elenco del telefono e “Uomini che odiano le donne”. Certo non è una regola assoluta. Ad esempio mi sono tenuto sempre a rilevantissima distanza dai libri di Licia Troisi (quella de “Le cronache del mondo e emerso”) nonostante il fantasy di norma sia uno dei generi che preferisco, e così pure da tutti gli scrittori ragazzini tipo Cristopher Paolini (quello di Eragon) e tutti i suoi epigoni italiani (Strazzulla e Ghiraldi per fare qualche esempio). Ma è pure vero che ho invece apprezzato moltissimo Harry Potter e nonostante ritenga assai esagerato il cancan che gli è stato creato attorno ho comunque apprezzato “Il codice Da Vinci”.
Insomma tutto questo discorso per dire cosa alla fine, che un po’ come per la disputa libro/film ho imparato col tempo ad approcciare i cosiddetti casi letterari con laicità. Né col pregiudizio favorevole di chi pensa che se a tanti è piaciuto deve essere per forza qualcosa di interessante, né col riflesso pavloviano snobistico di chi pensa che se è piaciuto a tanti deve per forza essere una cagata. E’ un genere di laicità che credo tutti dovrebbero avere, anche se per molti alla prova dei fatti potrebbe rivelarsi una conquista difficile. Per me in parte lo è stata.

E ORA… IL LIBRO: “Uomini che odiano le donne” è un libro che io consiglio a tutti. Non solo a chi è appassionato di libri gialli, io ad esempio non lo sono. Non è letteratura “alta” intendiamoci, di quella che ha la pretesa programmatica di parlare dei grandi temi della vita, ma allo stesso tempo è qualcosa di più di semplice letteratura d’evasione. Insomma è uno di quei libri rari in cui lo scrittore riesce a vivificare a tal punto suoi personaggi che i temi alti sembrano venire fuori da soli come una sorta di sottoprodotto di una trama di genere. Per cui chi legge in qualche modo li assorbe in pillole o, quando non li trova spunti interessanti, segue la storia continua a “divertirsi”.
Inoltre, l’intreccio del libro è di quelli che ti incollano alla storia. Sulla copertina è riportato un commento che dice “un libro che vi terrà svegli fino all’alba”. Con Simona (la mia compagna) al principio ironizzavo sulla cosa, siccome io sono una di quelle persone che quando si sdraia sul letto praticamente perde i sensi all’istante. Se provo a leggere non arrivo quasi mai alle dieci pagine. Sapete che vi dico? Di “Uomini che odiano le donne” non ne leggevo mai meno di trenta.
E poi, i motivi di originalità della trama sono assai numerosi, ma di questi non voglio parlare perché altrimenti rischio di rovinarvi il libro. Vi dirò soltanto che molte cose al suo interno non sono esattamente ciò che sembrano.
Ma non voglio lasciarvi con l’impressione che io consideri questo libro una sorta di totem. Nessun difetto dunque? Non esattamente. Diciamo non molti e non particolarmente rilevanti, ad esempio nelle ultime pagine ho trovate un paio di cose che non mi hanno convinto del tutto. Non fanno parte del finale della storia gialla principale, perchè un po’ come nel Signore degli anelli in questo libro si segue la storia dei personaggi per cospicuo numero di pagine dopo che il plot principale si è concluso (un pregio secondo me, visto che i personaggi sono molto interessanti). Un’altra cosa che non ho apprezzato molto, proprio dal punto di vista stilistico è la seguente. Quasi tutto il libro è narrato in una terza persona con soggettiva limitata a due personaggi Mikael Blomkvist e Lisbeth Salander. Fanno eccezione il prologo e uno dei primi capitoli in cui la “soggettiva” è sul capo della Milton Security… e alcuni pezzi qua e là in cui la prospettiva ballonzola su personaggi secondari (a volte anche solo per poche righe) in maniera leggermente irritante e anche piuttosto inutile ai fini della storia. Altro difetto, c’è un personaggio (non vi dirò qual è) che a mio avviso viene abbastanza maltrattato: nel senso che assume per una cospicua parte del libro una rilevanza piuttosto grande e poi praticamente di colpo viene abbandonato senza venire più richiamato.
Ma insomma, in un libro di quasi settecento pagine qualche difettuccio ci può anche stare, o no?

IL FILM: e quindi, per concludere, detto tutto questo: com’è il film?
A mio avviso è un buon film. Innanzitutto ho apprezzato il fatto che sia un film svedese, non perché non apprezzi il cinema americano (anzi “cinema americano vs. resto del mondo” è un’altra di quelle dispute che francamente non mi appassionano, assieme a quella “blockbuster vs. cinema indipendente” che le è strettamente parente) ma perché nel libro la componente della cultura del nord Europa è un aspetto importante e ritengo che una regia “in trasferta” non sarebbe riuscita a renderla altrettanto bene.
In secondo luogo è un film “solido”: ben strutturato, ben curato che si prende i tempi giusti per raccontare le cose (dura due ore e mezza) e non scivola mai nella faciloneria. Anche gli interpreti sono azzeccati secondo me.
Allo stesso tempo, avendo appena finito di leggere i libro non hanno potuto evitare di saltarmi agli occhi le numerosissime libertà che la sceneggiatura si è presa. Cose piccole e cose meno piccole. A cominciare da Gottfried Vanger promosso sul campo da nipote a fratello si Henrik Vagner, continuando con l’assoluta marginalità del personaggio di Erika Berger e delle vicende della rivista Millennium all’interno del plot cinematografico, o con il fatto che il film mostra cose di Lisbeth Salander che si sapranno solo nel secondo libro e decine (letteralmente) di altre cose che non vi posso dire per non incappare in degli spoiler.
Ciò non di meno è del tutto evidente, in questo film come in nessun altro, la volontà di adattare alla realtà cinematografica un plot chiaramente letterario, mantenendone da un lato il più possibile lo spirito e dall’altro con la coscienza che senza un film di cinque ore obiettivamente molto più di così non si poteva dire. Per cui tutte (o quasi) le scorciatoie che il film prende alla fine sono funzionali e non sostanziali, e comunque anche quando si avvicinano di più al sostanziale restano a mio avviso accettabili. Lampante da questo punto di vista è la scelta di rendere assolutamente marginale quel personaggio di cui io nel commento al libro avevo detto: “Larsson lo ha un po’ maltrattato”.
Alla fine di tutto mi sono rimaste alcune domande. In virtù della mia particolare situazione di lettore freschissimo non ho potuto fare a meno di vivere il film praticamente in una continua scansione di confronto. D’altra parte siccome in ogni parola per me riecheggiavano due pagine di libro sono stato del tutto inefficiente nel cercare di capire questo: chi il libro non l’ha letto quanto capirà della storia (quella che era in origine intendo)? Che impressione ne ricaverà? Vedrà almeno qualcosa della sua profondità o gli rimarrà soltanto l’idea di una storia gialla magari un po’ atipica ma senza poi nulla di particolare?

giovedì 14 maggio 2009

ROURKE

DUE CHIACCHIERE PRELIMINARI: da qualche tempo a questa parte ho seguito con una certa assiduità le nuove serie uscite per STAR COMICS, l’unica casa editrice fumettistica che cerca di competere con la Bonelli sul terreno che gli è proprio: albi di 96 pagine mensili o bimestrali distribuiti in edicola. Lo chiamano fumetto popolare. Che cosa significhi esattamente non l’ho mai capito. Alcune testate di Star Comics come Cornelio e Trigger le ho apprezzate (anzi le sto apprezzando e non escludo di scrivere in futuro una recensione tutta per loro), altre meno come Kohr o Nemrod. Se dedico questa recensione a Rourke non è perché la ritenga la migliore tra quelle dette, ma perché è appena uscito il numero uno e quindi mi sembra il momento più giusto per farlo.

TRAMA: Dublino, giorni nostri. Rourke è una sorta di detective dell’occulto: mezzo alcolizzato con figlia (Kylie) a carico, e con frequenti visioni di una donna in corpetto e abiti succinti. Il suo mestiere solitamente consiste nello scacciare maledizioni che attira su di sé semplicemente stringendo la mano del malcapitato (come poi lui le smaltisca fin qui non lo sappiamo). Un giorno un uomo proveniente da Kilkenny cerca il suo aiuto: la figlia mostra segni di possessione demoniaca. Di malavoglia (Kilkenny è la città Natale di Rourke e lui la detesta) accetta l’incarico. Una volta là però in breve si accorge che c’è qualcosa di diverso dal solito: scacciare la “maledizione” si rivela più difficile del previsto. In compenso Rourke e Kylie si trovano impantanati in una complicata vicenda di streghe e che coinvolge le autorità ecclesiastiche.

COMMENTO: lo sceneggiatore di questo fumetto è Federico Memola, creatore di Johnatan Steele, un fumetto che ha una strana storia editoriale. Partito con Bonelli (con cui sono usciti 64 numeri) è passato poi a Star Comics (col quel sono al 55). Ma non sono ristampe, o almeno non credo. Chissà com’è andata questa storia… probabilmente Bonelli decise di chiudere la testata e Memola si è accasato altrove. Ma è solo un’ipotesi. Comunque indubbiamente Johnatan Steele è un personaggio che ha avuto la sua parte di successo. Ai tempi dell’uscita con Bonelli presi i primi due albi e non mi impressionarono granché, chissà se ora mi piacerebbero di più.
Comunque sia, nell’editoriale di prima pagina immediatamente Dario Gulli (che figura come coordinatore delle Edizioni Star Comics) si preoccupa di rivendicare l’originalità del personaggio principale, prendendo le distanze da quello che noi tutti bene o male non possiamo che identificare come il suo prototipo, ovvero Dylan Dog. Legittimo, per quanto chi mai comincerebbe dicendo che il suo character è l’esatta replica di un modello di successo? Molte volte e in vari contesti mi è capitato di sentire gente parlare di un progetto (tipicamente il SUO progetto) rivendicando originalità e marcando la distanza. Originalità e distanze che altrettanto spesso ho faticato a mettere a fuoco.
Questo è uno di quei casi? Tutto sommato no. Devo dire che Rourke effettivamente ci mette qualcosa di suo. Come Dylan Dog è un personaggio antieroico, ma di uno stampo tutto diverso. Fatto il dovuto inciso che i miei paragoni si riferiscono a un Dylan Dog di almeno dieci anni fa (tanto è il tempo che non lo leggo più e questo anche il motivo del tempo imperfetto): dove il “prototipo Bonelliano” filosofeggiava, Rourke beve. Mentre Dylan aveva come spalla Groucho che ci rintronava di (spesso discutibili) battuta, Rourke ha sua figlia (è “ragazzo padre”). Mentre l’uno ci propinava a ogni piè sospinto le sue prestazioni sessuali, l’altro ha frequenti visioni di una donna assai avvenente ma diciamo… alquanto indisponibile, e non dico di più per non rovinarvi la sorpresa. Insomma se Dylan Dog potremmo definirlo un fighetto da brodo, Rourke certamente è fatto di tutt’altro impasto, inoltre la sua condizione familiare gli regala una spalla originale e interessante che spesso in questo primo numero rischia di rubargli la scena.
Detto questo, la storia non è straordinariamente originale ma nemmeno poi così banale e comunque ha i tempi e i modi giusti per essere più che gradevole. Inoltre, cosa che non avevo capito all’inizio, alla fine dell’albo si lascia intendere che tutti e otto i numeri di questa miniserie potrebbero comporre una storia unica, il chè a mio avviso amplia alquanto le potenzialità del fumetto. In conclusione una lettura indubbiamente piacevole e sopra la media, consigliato a tutti gli amanti del “fumetto popolare” se, una volta scoperto cosa significa, si riconoscono in tale descrizione.
E poi a quel punto magari lo spiegano pure a me…

mercoledì 6 maggio 2009

C7M - Intervista a Francesco Vivona

Un post flash per dire agli eventuali interessati che oggi è uscito sul sito www.delirio.net una mia intervesta a Francesco Vivona, ideatore, sceneggiatore e disegnatore della serie a fumetti "Il Cammino dei Sette Millenni" di cui circa un mesetto fa avevo scritto un'ampia recensione proprio su questo blog (e di cui credo di potermi dire a pieno titolo un fan...). Per quanto riguarda delirio, è l'inizio di una collaborazione? Mah! In realtà con Eliselle - la ragazza che tira le fila del sito - non ne ho parlato in questi termini, ho fatto l'intervista in veste di free-lance.
Chissà, magari occasionalmente, se dovessi avere altre idee gliele proporrò, poi deciderà lei se la cosa la interessa!

domenica 3 maggio 2009

ALTERED


DUE CHIACCHIERE PRELIMINARI: questa recensione è gemella della precedente (Solstice) per cui non tornerò a fare le stesse considerazioni, vi ricordo solo che questo film è girato da uno dei due registi (Eduardo Sanchez) di The Blair witch project, mentre Solstice era girato dall’altro (Daniel Myrick).

LA TRAMA IN BREVE: tre amici sulla trentina catturano un alieno in un bosco e decidono di portarlo da un quarto uomo con il quale avevano rotto ogni relazione ai tempi dell’adolescenza. Lì scopriamo che quindici anni prima gli alieni avevano rapito cinque ragazzi e solo quattro avevano fatto ritorno. Che cosa fare dell’alieno? Uno degli uomini, il fratello del ragazzo scomparso, vorrebbe ucciderlo ma il quarto uomo non la ritiene una buona idea. Intanto l’alieno comincia a manifestare i suoi terribili poteri psionici nel tentativo di liberarsi.

COMMENTO: anche leggendo questa trama, un po’ come leggendo quella di SOLSTICE, probabilmente non vi sarà venuta una grandissima voglia di vedere il film. Devo essere sincero, a me leggendo il risvolto del dvd non era venuta. Le storie di rapimenti da parte degli alieni, da Bagliori nel Buio in giù mi lascino piuttosto freddino, per non dire di peggio. Questo film però è stato tutto sommato una piacevole sorpresa.
La prima cosa da dire è che si tratta di un b-movie. Uno di quelli che hanno fatto almeno un pezzo della storia del cinema horror anni ottanta, quella firmata da registi come Stuart Gordon o Brian Yunza che di certo gli appassionati ricordano bene, ma anche di certi film di Carpenter (tipo Essi Vivono per dirne uno). Che cosa caratterizza questi film? Non saprei nemmeno definirlo esattamente: di certo il budget non elevato, effetti speciali artigianali, il fatto di rifiutare il cliché dell’horror pensato per gli adolescenti, un contenuto splatter piuttosto cospicuo. Ma oltre a questo c’è qualcosa di più: un’atmosfera divertita, una sorta di sotterraneo senso di anarchia. In ogni caso una cosa è certa, di questo genere di prodotto ad un certo punto ha cominciato un po’ a perdersi lo stampo, per cui per me questo film giunge inatteso e corroborante.
La trama sebbene basilarmente non molto originale, trova il suo perché nella sostanziale unità di tempo e spazio (quasi fosse un’opera teatrale è praticamente tutta ambientata in un garage) e nello sviluppo delle sue sfumature. Gli effetti speciali sono artigianali ma ben fatti, a partire dall’alieno adeguatamente gommoso (molto anni ’80 e al contempo molto più efficace dei chili di 3D che ci vengono ormai propinati ad ogni angolo), continuando con i metri di intestino che vengono srotolati fuori dalla pancia di uno dei malcapitati e per finire con un personaggio che marcisce in diretta (un po’ come in Un lupo mannaro americano a Londra). Il ritmo è incalzante, e il film assai corto e anche questa è una forma di anarchismo, della serie: se hai cose da dire per un’ora e quindici minuti non c’è bisogno di arrivare a un’ora e mezza riempiendolo di cose che non c’entrano, non ti paghiamo a peso.
In conclusione questo Altered per me è stato un film soddisfacente a cui, se fossimo a scuola, assegnerei una sufficienza piena - anche se non eccessivamente abbondante.
Consigliato, ma solo agli amanti del genere.

venerdì 17 aprile 2009

SOLSTICE

DUE CHIACCHIERE PRELIMINARI: sono passati dieci anni da quando è uscito The Blair witch project. Molti di voi sicuramente se lo ricordano, quel film sui tre ragazzi che si perdono nel bosco della strega di Blair, filmato con telecamera a mano come un finto documentario e accompagnato da un battage pubblicitario che lo voleva il vero filmato di un fatto realmente accaduto. Costato quattro soldi, fu uno dei successi maggiori della stagione. Se ne dissero tante su quel fenomeno, in Italia la critica gli lanciò specialmente strali contro. A me personalmente il film era piaciuto molto. L’idea era innovativa e la realizzazione brillante (nella sua povertà). Poi di Myrick e Sanchez (i due registi) non avevo saputo più nulla. Per un po’ ho seguito i loro curriculum (su www.imdb.com) e dopo il coinvolgimento, come sceneggiatori, nell’ignobile sequel di Blair witch project avevo perso le oro tracce. Le ho ritrovate (per caso) al mio videonoleggio qualche giorno fa. A quanto pare le loro strade si sono divise: Sanchez ha diretto un paio di film passati completamente inosservati (tra cui Altered che noleggerò verosimilmente a breve) e Myrick ha lavorato principalmente per il mercato dell’home video, tra cui c’è anche questo Solstice.

LA TRAMA IN BREVE: Megan, la cui gemella (Sophie) si è suicidata sei mesi prima, va alla casa sul lago dei genitori per passare una settimana di vacanza insieme al suo gruppo di amici, a cavallo del solstizio d’estate (da cui il titolo). In poco tempo, il luogo si dimostra infestato da una presenza sinistra. Sarà il fantasma della gemella?

COMMENTO: lo so, è più che probabile che leggendo la trama non vi sia venuta voglia di vederlo. Sembra mille altri film, del genere, non è vero? Ebbene, purtroppo è proprio così. Non c’è davvero nulla dell’innovazione di Blair Witch, qui. Ci sono invece tutti gli stilemi del genere horror in versione teen movie: ragazzi in vacanza, relative dinamiche sentimentali, gemelli, un portachiavi maledetto, spiriti inquieti, rubinetti che vomitano fango, sensi di colpa, colpi di scena vagamente narcotici. Nulla da salvare? Beh, se proprio vogliamo possiamo salvare la confezione che non è spregevole. La storia (a parte il canovaccio che, come detto, è piuttosto trito) tiene abbastanza bene, le battutine sceme dei ragazzi non sono particolarmente urtanti, i personaggi non sono particolarmente monodimensionali, ci viene evitato il campionario di ammazzamenti gratuiti. In generale si può dire questo: il prodotto obiettivamente è mediocre ma almeno è realizzato con un passabile buongusto. Ciò detto, ben si sa, chi si accontenta gode.
Certo era legittimo aspettarsi qualcosa di più da uno dei registi di Blair witch, ma sinceramente letta la trama non mi aspettavo poi meglio di così. E se dopo un successo planetario i due registi non si sono più sentiti forse un motivo c’è pure. Peccato. A risentirci dopo la visione di Altered di Sanchez.

mercoledì 1 aprile 2009

IL CAMMINO DEI SETTE MILLENNI

DUE CHIACCHIERE PRELIMINARI: Mi sono imbattuto in questo fumetto per caso, ne cercavo un altro e mi è capitato in mano questo. Sono in un periodo in cui ho voglia di leggere fumetti fantasy, anche perché ora come ora faccio fatica a leggere libri.
Da qualche tempo a questa parte ho cominciato a leggere un fumetto dalla prima all’ultima pagina, compresi i ringraziamenti e lo staff che ha lavorato al progetto. Tutto quanto. Così ho scoperto che questo primo albo inaugura anche una casa editrice (la Omniars) e che l’autore del fumetto (Francesco Vivona) è anche il direttore editoriale della casa editrice, e leggendo l’accoratezza dell’editoriale (scritto sempre dall’autore) mi sono fatto un’idea abbastanza precisa di quanto questa persona si debba essere spesa nel progetto. Perché tutto questo odora terribilmente di autoproduzione, ma ad averlo tra le mani “Il cammino dei sette millenni” sembra tutto tranne che autoprodotto.
Anzi, la produzione curatissima, carta patinata, tavole tutte a colori, distribuzione in edicola. E badate bene che fa una bella differenza: le piccole case editrici (qui parlo di editoria “libraria”) hanno un grandissimo problema con la distribuzione. La distribuzione costa e spesso non significa visibilità. Una volta il proprietario di una fumetteria mi ha spiegato che in quel mondo ci sono due livelli ben distinti: quello degli albi che arrivano solo in fumetteria, in cui il prodotto raggiunge solo gli appassionati, e quello degli albi che arrivano anche nelle edicole dove potenzialmente possono raggiungere tutti. E d’altra parte a Modena ci sono 4 fumetterie e ci saranno forse cento edicole.
La differenza è lampante.
In considerazione di tutto questo ho avuto immediatamente un moto di istintiva simpatia per questo ammirevole avventuriero e la sua esperienza editoriale e autoriale (anche perché non ho potuto fare a meno di pensare a quanto grano deve aver cacciato per questo lodevole tentativo…).
Ma ora parliamo un po’ del fumetto.

LA TRAMA IN DUE (o anche quattro) PAROLE: Akerone Der Urlik sovrano dei centauri penetra nel tempio degli alfeuti (creature somiglianti a troll, anche se di spirito assai più nobile) per impossessarsi dell’essenza delle rocce. Ora ne possiede due, quando le possiederà tutte e sette (ciascuna è custodita da una popolazione diversa) gli si spalancheranno le porte dell’Eptacor. Di che si tratti non l’ho ben capito, ma sicuramente una cosa molto desiderabile e interessante.
Cambio di scena.
Nefesto, alfeuta custode del tempio delle rocce e sopravvissuto al massacro ordito dal sovrano dei centauri, giunge in casa di Liam Lehansen Morla della popolazione dei Lumienh, unico figlio superstite di Lear Nohansen Morla, grande eroe del regno di Dagradia (che comprende tutte e sette le popolazioni) morto in circostanze misteriose dopo aver (pare) ucciso tutto il resto della sua famiglia. Nefesto oltre alla notizia della caduta del tempio alfeuta porta con sé Animah-Argenti la sacra spada che le leggende vogliono sia stata dell’Eroe che combattè il male a Dagradia sette millenni prima. Toccherà a Liam portarla al sovrano di Dagradia attraverso Shen Ra Sul, la città degli Umbrox e poi… basta perché qui finisce l’albo.
Naturalmente c’è molto di più, ma direi che un’idea ve la siete fatta.

E ora il COMMENTO:
Innanzitutto faccio una premessa: ho già detto della simpatia che questo progetto da “venture-cartoonist” ha suscitato in me. Non pensate però che per questo mi lasci troppo intenerire e darò una valutazione parziale. Non sono un fanatico dell’underground e dell’autoprodotto. Anzi io penso (autolesionisticamente, perché io per primo pubblico i miei scritti con piccole case editrici) che se un progetto non attira l’attenzione di una casa editrice di discrete dimensioni è perché probabilmente non è sufficientemente valida. Controprova di questa teoria è che mi è capitato raramente di leggere un’opera di questo tipo che io giudicassi davvero onestamente buona. Il fumetto fa in parte eccezione, ad esempio mi piacevano molto le serie della Orione (la casa editrice che produceva Ares, Harmoran e che ha prodotto gli ultimi albi di 2700), e comunque va da sé che ci sono sempre eccezioni. Però dalla mia poca esperienza mi sono fatto l’idea che in realtà il mondo dell’editoria sia più meritocratico di quello che tradizionalmente si pensa, e comunque più moltissimi altri con cui mi è capitato di dovermi rapportare.

Detto questo, il COMMENTO VERO:
Sulla qualità della produzione dell’oggetto mi sono pronunciato: è veramente buona.
I disegni pure sono davvero ottimi (almeno per quello che io, da profano, posso capirne…).
Per quanto riguarda il lato narrativo, sul quale mi sento mi sento un po’ più competente: il fumetto ha un bel ritmo, una storia interessante un ambientazione e dei personaggi ben tratteggiati.
Due pecche: un target un po’ troppo adolescenziale per la mia età, e un personaggio principale decisamente troppo ripiegato sui suo guai famigliar-personali per i miei gusti. Questa figura antieroica, che poi tragicamente con il procedere della storia ho il sentore che si rivelerà eroica, che pigola e piagnucola sui suoi problemi e sulle sue impredestinate predestinazioni mi provoca un immediata costrizione dei dotti biliari con ittero annesso. Non lo faccio apposta, è un riflesso condizionato. Ma è un problema mio: dalla tredicesima saga di Shannara in poi questi personaggi ho cominciato a viverli male.
Per il resto la promozione è a pieni voti.

P.S.: per saperne di più potete visitare il bellissimo sito ufficale settemillenni.com (proprio così, senza il “www”)

giovedì 26 marzo 2009

PONYO SULLA SCOGLIERA

DUE CHIACCHIERE PRELIMINARI: ho conosciuto l’animazione di Hayao Miazaki per caso. Correva l’anno 1998, e in sordina uscì al cinema “Principessa Mononoke”. Non ricordo nemmeno se vidi i trailer oppure semplicemente il cartellone, erano anni in cui appena una cosa mi ispirava un minimo andavo al cinema anche così a UFO. Ci andai una seconda serata di un giorno infrasettimanale. A parte io e i miei amici non c’erano più 5 altre persone.
Sembra strano adesso che di Ponyo sulla scogliera ne hanno parlato persino al TG1 e Miazaki è ormai conosciuto anche al grande pubblico. Intendo qui in Italia, in Giappone lo è già da almeno vent’anni.
Comunque da allora appena esce al cinema un film di Miazaki mi ci butto immediatamente sopra a corpo morto. Qualche anno dopo “Principessa Mononoke” è uscito “La città incantata” (quello che preferisco in assoluto) poi “Il castello errante di Howl”. Ho visto anche “Laputa castello nel cielo”, nonché la serie “Conan ragazzo del futuro”: tutte opere di altissimo livello.
Una curiosità, Goro Miazaki (il figlio di Hayao) sta seguendo le orme del padre, il suo unico lungometraggio (“I racconti di Terramare”, tratto dall’omonima saga di Ursula LeGuin) si dice non sia del livello di quelli del padre, ma comunque un giorno di questi mi toglierò la curiosità di vederlo.

TRAMA e COMMENTO: Brunilde, pesce rosso dalla faccia umana figlia di una dea marina e uno stregone umano che ora vive negli abissi, fugge dalla casa sottomarina del padre. Viene quasi catturata da una rete a strascico, finisce in un barattolo di marmellata e viene salvata da Soske, un bambino di 5 anni che la ribattezza Ponyo. Nel rompere il barattolo di marmellata Soske si ferisce e Ponyo gli lecca la ferita guarendola. Il sangue di Soske rende Ponyo in grado di mutare forma e la sua amicizia la convince di voler diventare una bambina.
La magia di Ponyo però getta nel caos gli oceani, la luna si avvicina e le maree si alzano rischiando di inghiottire la città di Soske (e forse tutto il mondo).
Naturalmente toccherà a Soske rimettere tutto a posto, ma di più non vi dico.
“Ponyo sulla scogliera” è l’opera più a misura di bambino tra tutte quelle che ho visto di Miazaki, sia come storia, sia come tratto del disegno. Per questo è anche la più semplice e la meno oscura. Certo si tratta di una semplicità tutta giapponese, il chè significa che comunque rispetto ad un film di animazione occidentale è lo stesso molto più complesso, sfaccettato e assai meno schematico nell’offrire spiegazioni. Inoltre, se pure ripulita dalle sue venature oscure anche “Ponyo sulla scogliera” è un’opera di grandissima forza visionaria, che è poi il motivo principale per cui i film di Miazaki mi piacciono così tanto.
Certo, se nella vostra vita non avete mai visto altri film d’animazione che “La sirenetta” e “Shrek” dovete sapere che quello a cui andate incontro è qualcosa di radicalmente diverso.
Sia come storia, sia a livello di ritmo narrativo: insomma è verosimile che possiate anche trovarlo piuttosto noioso.
Detto questo direi che dovreste esservi fatti un’idea.
Io ovviamente lo consiglio.

sabato 14 marzo 2009

OPEN BOOK


E’ pronto l’e-book derivato dall’iniziativa OPEN BOOK di cui vi avevo parlato quale post fa.
Giusto per rinfrescarvi la memoria: come Xomegap ed insieme all’amico Marco Giorgini di Kult Virtual Press e sotto l’egida di Zona Holden, abbiamo gestito nel mese di febbraio un progetto di scrittura collettiva aperto a tutti. Noi abbiamo scritto tre diversi prologhi di tre diverse linee narrative (noir, fantasy e narrativa) poi abbiamo lasciato ad altri, chi voleva, il compito di scrivere i vari capitoli della storia. Noi ci siamo limitati a scegliere il materiale, editatarlo e tenere un po’ le fila del discorso complessivo della narrazione.
Il risultato, specialmente se si pensa che abbiamo fatto tutto in poco più di un mese è stato molto positivo.
Cliccate sull’immagine qui sotto per essere mandati alla pagina di Zona Holden da cui scaricare l’e-book.
L’e-book è un eseguibile e basta lanciarlo con un doppio click e poi usare le frecce (Up e Down) per voltare le pagine. Premendo “F1” invece verrete rimandati ad una pagina dove sono illustrate alcune altre funzionalità.
Buona lettura!

giovedì 19 febbraio 2009

SANREMO 2009

Trovo che Sanremo sia uno dei programmi più rilassanti della televisione italiana. Questa kermesse debordante che incolla davanti al piccolo schermo milioni di persone da 60 anni è parte dell’inconscio collettivo di un’Italia ruspante e bonaria di cui specialmente in questi tempi un po’ cupi si sente il bisogno. La musica che suonano però non mi piace granchè.
Quest’anno, devo dire, la trovo in media particolarmente scarsa.
Un paio d’anni fa, l’anno in cui vinse Simone Cristicchi con “Ti regalerò una rosa” (una canzone bella e dolcissima) c’erano almeno altre tre o quattro canzoni che mi piacevano proprio (nel senso che mi piacevano “in assoluto”, non “mi piacevano come canzoni di Sanremo”), tra cui quella che ricordo meglio è quella di Tosca. Quest’anno a essere sincero ho dovuto sforzarmi un po’. Inoltre, a parte la mancanza ci canzoni che mi piacciano proprio “molto in assoluto” la concentrazione di caritidi, rottami, personaggi inutili è davvero alta. Ovviamente tutto questo “a mio parere”.
Sanremo come spettacolo invece funziona bene, Bonolis gli ha impresso un ritmo notevole (specialmente raffrontato al sopore Baudiano) e ha preteso interventi di qualità. Originale l'idea di mettere un valletto uomo e quella delle letture (anche se fatte a tarda sera). Anche i duetti tra lui e Laurenti funzionano (qualcuno più qualcuno meno, ma nel complesso funzionano). Peccato che, come dicevo a non venirgli in socorso sia proprio la qualità della musica. Ma l'auditel gli ha dato ragione per cui tanto basta.
A seguire una breve disamina dei big di quest’anno:

Alexia/Lavezzi: Alexia canta bene (ma con uno stile che non mi piace), Lavezzi le fa da strano contrappunto. La cosa potrebbe anche funzionare, la canzone però è bruttarella. Voto: 5
Povia: gli hanno dato tutti addosso e io ero pronto a unirmi perché francamente mi sta abbastanza sulle palle. Però mi sono ricreduto. La canzone è molto politicamente scorretta, ma racconta una storia e lo fa a mio parere anche con un minimo intelligenza. Certo il terreno è sdrucciolevole e bisogna stare attenti alle generalizzazioni. Voto: 6.5
Al Bano: Inqualificabile. Voto: Non pervenuto
Nicolai/Di Battista: Un genere di canzone che non apprezzo molto, ma almeno ritmata, allegra fortemente musicale e vitale. Voto: 6
Sal Da Vinci: Inadatto al mercato estero. Voto: 3
Gemelli diversi: Da vedere sono terribili e la canzone ha un testo che non mi piace, però la musica c’è. Vista la mancanza di cavalli tanto basta per emergere. Voto: 6.5
Pupo/Belli/’Ndour: patetici e grotteschi. La domanda è: come ci è finito Youssou ‘Ndour con sté due macchiette? Voto: 3
Renga: Canzone al limite della lirica la prima volta non mi era piaciuta granché ma poi è una di quelle che mi è rimasta più in mente. Lui ha una voce che spacca. Voto: 7.5
Masini: Non avrei mai pensato di apprezzare una canzone di Masini. Il suo appello all’Italia è a tratti qualunquista e naif, ma alla fine funziona. E poi diciamocelo: quest’Italia, con tutto il bene che le voglio, ha davvero rotto i coglioni: sentirlo cantare è assai liberatorio. Voto: 6.5
Patty Pravo: si gioca con la Zanicchi il premio “Fuori tempo massimo” e con le tette in bella vista che ha messo in mostra ieri sera lo vince sul filo di lana. Inoltre mi chiedevo: ma in quarant’anni che ce la siamo sorbita nessuno si è mai accorto che canta malissimo? Peccato, la canzone non sarebbe neanche male. Voto: 4
Marco Carta: No! Voto: 1
Fausto Leali: Lui canta bene, ma la canzone è improponibile. Voto: 4
Dolcenera: probabilmente la canzone che preferisco dal punto di vista strettamente musicale. Il testo però è abbastanza loffio. Voto: 7
Iva Zanicchi: sentendo la canzone mi veniva in mente la bionda platinata de “l’ottavo nano” che cantava “Sesso senz’amore” (U!U!). Non mi faceva tanto ridere. Voto: 3
Afterhours: qui in mezzo sembrano dei marziani, non per nulla sono stati eliminati subito. La canzone in sè bisognava sentirla almeno una volta in più per giudicare Voto: 7 (di stima).
Tricarico: ecco: questo è uno di quei fenomeni a mio avviso inspiegabili. Ogni volta che leggo un commento ne sento parlare come di una grande mente creativa. I giornalisti lo osannano in plenum, ma perché? Triste come una salita, dimesso come un alcolista anonimo, egocentrico come primadonna (due canzoni ho sentito a Sanremo e l’ho sentito parlare solo di sé, inoltre la sua canzone più famosa si chiama "Io sono Francesco", fate voi). La sua canzoncina è stupida e insulsa e per essere certo che non ci scappi di apprezzarla lui la rantola che è uno strazio. E il pubblico, giustamente, lo ignora. Senza voto.

lunedì 16 febbraio 2009

Racconti frizzanti e Open Book


Un breve post per comunicarvi che il mio racconto “Wine Karma” è stato scelto da Damster Edizioni per l’antologia “Racconti Frizzanti” in uscita alla fine del mese e il cui racconto vincitore (tutt’ora ignoto, i selezionati per la pubblicazione sono i “finalisti”) sarà premiato durate il 4 aprile allo stand Emilia Romagna di Vinitaly 2009. Qui a fianco la probabile copertina.
Seconda cosa l’iniziativa Open Book, collegata a Book Modena 2009, e di cui vi ho parlato qualche post orsono procede, direi, bene. Abbiamo ancora due settimane circa per completarla e direi che ci riusciremo senza problemi su tutti e tre i filoni. Intanto persino “La Stampa” ha parlato di noi. Ho conservato il cartaceo ma non avendo uno scanner non lo posso condividere con voialtri. Comunque è il classico articolo che dice: "chi siete?", "cosa portiate?", "sì, ma quanti siete?", "un fiorino!".