sabato 30 maggio 2009

UOMINI CHE ODIANO LE DONNE – LIBRO vs. FILM

DUE CHIACCHIERE PRELIMINARI: innanzitutto voglio precisare questo, la disputa che nasce tutte le volte si trae una riduzione cinematografica da un libro è una cosa che in generale non mi appassiona. Specialmente trovo enormemente irritanti i pipponi integralisti di coloro che hanno apprezzato il libro (solitamente totemizzandolo, le persone che fanno questo genere discorsi sono quasi sempre persone “tutto o nulla”) e pontificano rimarcando tutte le circostanze in cui il film si discosta dal libro (quasi fosse il Vangelo), senza soffermarsi sul fatto che libro e film sono due forme di comunicazione diverse e pertanto hanno spesso esigenze differenti. Questi ragionamenti, di norma, mi fanno colare le palle fino al suolo. Non è una cosa di questo tipo che state per affrontare. Ciò detto, 10 giorni fa ho finito di leggere il libro e ieri sera sono stato a vedere il film per cui l’occasione di metterli a confronto era davvero troppo ghiotta perché me la lasciassi sfuggire. Ah, avviso ai naviganti. Ho posto molta attenzione a NON METTERE SPOILER, ossia a non fare rivelazioni importanti sulla trama.

LA TRAMA IN BREVE: Mikael Blomkvist, giornalista economico di una testata indipendente (Millennium), è stato appena condannato a scontare tre mesi di carcere per aver diffamazione (ovviamente è stato incastrato). Perciò lascia la guida del giornale che dirige con la sua amica (e amante) di una vita Erika Berger e accetta un bizzarro incarico da parte da un magnate storico dell’industria svedese Henrik Vanger, ossia indagare sulla scomparsa della sua nipote Harriet avvenuta quaranta anni prima e che si ritiene sia stata assassinata da un membro della famiglia. In queste indagini verrà aiutato da una ragazza molto particolare ossia Lisbeth Salander “investigatrice freelance” alla Milton Security che solo qualche mese prima era stata incaricata da Henrik Vanger di indagare proprio su Blomkvist.

DIGRESSIONE sui CASI LETTERARI (PASSARE OLTRE SE NON INTERESSATI): “Uomini che odiano le donne” e diciamo pure tutta la Millenium Trilogy di Stieg Larsson (infatti questo è soltanto il primo di tre libri incentrati sulla figura di Blomkvist e sulla rivista Millenium) è stato uno dei casi letterari più importanti degli ultimi anni. Ora, io e i casi letterari andiamo d’accordo fino ad un certo punto. Non me ne faccio coinvolgere di frequente, perché ho rilevato che spesso sono montati ad arte e non incontrano il mio gusto. E’ anche vero che con gli anni ho imparato a distinguere a naso i diversi tipi di fenomeno a cui viene appiccicata tale etichetta. Ora non mi sognerei mai di lanciarmi nella lettura di cose tipo “Va dove ti porta il cuore” o “Melissa P” due delle letture più avvilenti che mi sia mai capitato di affrontare. Altre volte sono stato più fortunato. O forse più furbo. Non saprei dire esattamente perché certi casi mi ispirano e certi altri no. Di certo un caso letterario “di genere” (giallo nella fattispecie), di norma mi ispira di più, forse perché ha per forza incontrato ed è per forza piaciuto ad un lettore che in quanto settoriale è mediamente più scafato in materia. Conosco persone che nella vita hanno letto solo l’elenco del telefono e “Va dove ti porta il cuore”, ma nessuno che abbia letto solo l’elenco del telefono e “Uomini che odiano le donne”. Certo non è una regola assoluta. Ad esempio mi sono tenuto sempre a rilevantissima distanza dai libri di Licia Troisi (quella de “Le cronache del mondo e emerso”) nonostante il fantasy di norma sia uno dei generi che preferisco, e così pure da tutti gli scrittori ragazzini tipo Cristopher Paolini (quello di Eragon) e tutti i suoi epigoni italiani (Strazzulla e Ghiraldi per fare qualche esempio). Ma è pure vero che ho invece apprezzato moltissimo Harry Potter e nonostante ritenga assai esagerato il cancan che gli è stato creato attorno ho comunque apprezzato “Il codice Da Vinci”.
Insomma tutto questo discorso per dire cosa alla fine, che un po’ come per la disputa libro/film ho imparato col tempo ad approcciare i cosiddetti casi letterari con laicità. Né col pregiudizio favorevole di chi pensa che se a tanti è piaciuto deve essere per forza qualcosa di interessante, né col riflesso pavloviano snobistico di chi pensa che se è piaciuto a tanti deve per forza essere una cagata. E’ un genere di laicità che credo tutti dovrebbero avere, anche se per molti alla prova dei fatti potrebbe rivelarsi una conquista difficile. Per me in parte lo è stata.

E ORA… IL LIBRO: “Uomini che odiano le donne” è un libro che io consiglio a tutti. Non solo a chi è appassionato di libri gialli, io ad esempio non lo sono. Non è letteratura “alta” intendiamoci, di quella che ha la pretesa programmatica di parlare dei grandi temi della vita, ma allo stesso tempo è qualcosa di più di semplice letteratura d’evasione. Insomma è uno di quei libri rari in cui lo scrittore riesce a vivificare a tal punto suoi personaggi che i temi alti sembrano venire fuori da soli come una sorta di sottoprodotto di una trama di genere. Per cui chi legge in qualche modo li assorbe in pillole o, quando non li trova spunti interessanti, segue la storia continua a “divertirsi”.
Inoltre, l’intreccio del libro è di quelli che ti incollano alla storia. Sulla copertina è riportato un commento che dice “un libro che vi terrà svegli fino all’alba”. Con Simona (la mia compagna) al principio ironizzavo sulla cosa, siccome io sono una di quelle persone che quando si sdraia sul letto praticamente perde i sensi all’istante. Se provo a leggere non arrivo quasi mai alle dieci pagine. Sapete che vi dico? Di “Uomini che odiano le donne” non ne leggevo mai meno di trenta.
E poi, i motivi di originalità della trama sono assai numerosi, ma di questi non voglio parlare perché altrimenti rischio di rovinarvi il libro. Vi dirò soltanto che molte cose al suo interno non sono esattamente ciò che sembrano.
Ma non voglio lasciarvi con l’impressione che io consideri questo libro una sorta di totem. Nessun difetto dunque? Non esattamente. Diciamo non molti e non particolarmente rilevanti, ad esempio nelle ultime pagine ho trovate un paio di cose che non mi hanno convinto del tutto. Non fanno parte del finale della storia gialla principale, perchè un po’ come nel Signore degli anelli in questo libro si segue la storia dei personaggi per cospicuo numero di pagine dopo che il plot principale si è concluso (un pregio secondo me, visto che i personaggi sono molto interessanti). Un’altra cosa che non ho apprezzato molto, proprio dal punto di vista stilistico è la seguente. Quasi tutto il libro è narrato in una terza persona con soggettiva limitata a due personaggi Mikael Blomkvist e Lisbeth Salander. Fanno eccezione il prologo e uno dei primi capitoli in cui la “soggettiva” è sul capo della Milton Security… e alcuni pezzi qua e là in cui la prospettiva ballonzola su personaggi secondari (a volte anche solo per poche righe) in maniera leggermente irritante e anche piuttosto inutile ai fini della storia. Altro difetto, c’è un personaggio (non vi dirò qual è) che a mio avviso viene abbastanza maltrattato: nel senso che assume per una cospicua parte del libro una rilevanza piuttosto grande e poi praticamente di colpo viene abbandonato senza venire più richiamato.
Ma insomma, in un libro di quasi settecento pagine qualche difettuccio ci può anche stare, o no?

IL FILM: e quindi, per concludere, detto tutto questo: com’è il film?
A mio avviso è un buon film. Innanzitutto ho apprezzato il fatto che sia un film svedese, non perché non apprezzi il cinema americano (anzi “cinema americano vs. resto del mondo” è un’altra di quelle dispute che francamente non mi appassionano, assieme a quella “blockbuster vs. cinema indipendente” che le è strettamente parente) ma perché nel libro la componente della cultura del nord Europa è un aspetto importante e ritengo che una regia “in trasferta” non sarebbe riuscita a renderla altrettanto bene.
In secondo luogo è un film “solido”: ben strutturato, ben curato che si prende i tempi giusti per raccontare le cose (dura due ore e mezza) e non scivola mai nella faciloneria. Anche gli interpreti sono azzeccati secondo me.
Allo stesso tempo, avendo appena finito di leggere i libro non hanno potuto evitare di saltarmi agli occhi le numerosissime libertà che la sceneggiatura si è presa. Cose piccole e cose meno piccole. A cominciare da Gottfried Vanger promosso sul campo da nipote a fratello si Henrik Vagner, continuando con l’assoluta marginalità del personaggio di Erika Berger e delle vicende della rivista Millennium all’interno del plot cinematografico, o con il fatto che il film mostra cose di Lisbeth Salander che si sapranno solo nel secondo libro e decine (letteralmente) di altre cose che non vi posso dire per non incappare in degli spoiler.
Ciò non di meno è del tutto evidente, in questo film come in nessun altro, la volontà di adattare alla realtà cinematografica un plot chiaramente letterario, mantenendone da un lato il più possibile lo spirito e dall’altro con la coscienza che senza un film di cinque ore obiettivamente molto più di così non si poteva dire. Per cui tutte (o quasi) le scorciatoie che il film prende alla fine sono funzionali e non sostanziali, e comunque anche quando si avvicinano di più al sostanziale restano a mio avviso accettabili. Lampante da questo punto di vista è la scelta di rendere assolutamente marginale quel personaggio di cui io nel commento al libro avevo detto: “Larsson lo ha un po’ maltrattato”.
Alla fine di tutto mi sono rimaste alcune domande. In virtù della mia particolare situazione di lettore freschissimo non ho potuto fare a meno di vivere il film praticamente in una continua scansione di confronto. D’altra parte siccome in ogni parola per me riecheggiavano due pagine di libro sono stato del tutto inefficiente nel cercare di capire questo: chi il libro non l’ha letto quanto capirà della storia (quella che era in origine intendo)? Che impressione ne ricaverà? Vedrà almeno qualcosa della sua profondità o gli rimarrà soltanto l’idea di una storia gialla magari un po’ atipica ma senza poi nulla di particolare?

giovedì 14 maggio 2009

ROURKE

DUE CHIACCHIERE PRELIMINARI: da qualche tempo a questa parte ho seguito con una certa assiduità le nuove serie uscite per STAR COMICS, l’unica casa editrice fumettistica che cerca di competere con la Bonelli sul terreno che gli è proprio: albi di 96 pagine mensili o bimestrali distribuiti in edicola. Lo chiamano fumetto popolare. Che cosa significhi esattamente non l’ho mai capito. Alcune testate di Star Comics come Cornelio e Trigger le ho apprezzate (anzi le sto apprezzando e non escludo di scrivere in futuro una recensione tutta per loro), altre meno come Kohr o Nemrod. Se dedico questa recensione a Rourke non è perché la ritenga la migliore tra quelle dette, ma perché è appena uscito il numero uno e quindi mi sembra il momento più giusto per farlo.

TRAMA: Dublino, giorni nostri. Rourke è una sorta di detective dell’occulto: mezzo alcolizzato con figlia (Kylie) a carico, e con frequenti visioni di una donna in corpetto e abiti succinti. Il suo mestiere solitamente consiste nello scacciare maledizioni che attira su di sé semplicemente stringendo la mano del malcapitato (come poi lui le smaltisca fin qui non lo sappiamo). Un giorno un uomo proveniente da Kilkenny cerca il suo aiuto: la figlia mostra segni di possessione demoniaca. Di malavoglia (Kilkenny è la città Natale di Rourke e lui la detesta) accetta l’incarico. Una volta là però in breve si accorge che c’è qualcosa di diverso dal solito: scacciare la “maledizione” si rivela più difficile del previsto. In compenso Rourke e Kylie si trovano impantanati in una complicata vicenda di streghe e che coinvolge le autorità ecclesiastiche.

COMMENTO: lo sceneggiatore di questo fumetto è Federico Memola, creatore di Johnatan Steele, un fumetto che ha una strana storia editoriale. Partito con Bonelli (con cui sono usciti 64 numeri) è passato poi a Star Comics (col quel sono al 55). Ma non sono ristampe, o almeno non credo. Chissà com’è andata questa storia… probabilmente Bonelli decise di chiudere la testata e Memola si è accasato altrove. Ma è solo un’ipotesi. Comunque indubbiamente Johnatan Steele è un personaggio che ha avuto la sua parte di successo. Ai tempi dell’uscita con Bonelli presi i primi due albi e non mi impressionarono granché, chissà se ora mi piacerebbero di più.
Comunque sia, nell’editoriale di prima pagina immediatamente Dario Gulli (che figura come coordinatore delle Edizioni Star Comics) si preoccupa di rivendicare l’originalità del personaggio principale, prendendo le distanze da quello che noi tutti bene o male non possiamo che identificare come il suo prototipo, ovvero Dylan Dog. Legittimo, per quanto chi mai comincerebbe dicendo che il suo character è l’esatta replica di un modello di successo? Molte volte e in vari contesti mi è capitato di sentire gente parlare di un progetto (tipicamente il SUO progetto) rivendicando originalità e marcando la distanza. Originalità e distanze che altrettanto spesso ho faticato a mettere a fuoco.
Questo è uno di quei casi? Tutto sommato no. Devo dire che Rourke effettivamente ci mette qualcosa di suo. Come Dylan Dog è un personaggio antieroico, ma di uno stampo tutto diverso. Fatto il dovuto inciso che i miei paragoni si riferiscono a un Dylan Dog di almeno dieci anni fa (tanto è il tempo che non lo leggo più e questo anche il motivo del tempo imperfetto): dove il “prototipo Bonelliano” filosofeggiava, Rourke beve. Mentre Dylan aveva come spalla Groucho che ci rintronava di (spesso discutibili) battuta, Rourke ha sua figlia (è “ragazzo padre”). Mentre l’uno ci propinava a ogni piè sospinto le sue prestazioni sessuali, l’altro ha frequenti visioni di una donna assai avvenente ma diciamo… alquanto indisponibile, e non dico di più per non rovinarvi la sorpresa. Insomma se Dylan Dog potremmo definirlo un fighetto da brodo, Rourke certamente è fatto di tutt’altro impasto, inoltre la sua condizione familiare gli regala una spalla originale e interessante che spesso in questo primo numero rischia di rubargli la scena.
Detto questo, la storia non è straordinariamente originale ma nemmeno poi così banale e comunque ha i tempi e i modi giusti per essere più che gradevole. Inoltre, cosa che non avevo capito all’inizio, alla fine dell’albo si lascia intendere che tutti e otto i numeri di questa miniserie potrebbero comporre una storia unica, il chè a mio avviso amplia alquanto le potenzialità del fumetto. In conclusione una lettura indubbiamente piacevole e sopra la media, consigliato a tutti gli amanti del “fumetto popolare” se, una volta scoperto cosa significa, si riconoscono in tale descrizione.
E poi a quel punto magari lo spiegano pure a me…

mercoledì 6 maggio 2009

C7M - Intervista a Francesco Vivona

Un post flash per dire agli eventuali interessati che oggi è uscito sul sito www.delirio.net una mia intervesta a Francesco Vivona, ideatore, sceneggiatore e disegnatore della serie a fumetti "Il Cammino dei Sette Millenni" di cui circa un mesetto fa avevo scritto un'ampia recensione proprio su questo blog (e di cui credo di potermi dire a pieno titolo un fan...). Per quanto riguarda delirio, è l'inizio di una collaborazione? Mah! In realtà con Eliselle - la ragazza che tira le fila del sito - non ne ho parlato in questi termini, ho fatto l'intervista in veste di free-lance.
Chissà, magari occasionalmente, se dovessi avere altre idee gliele proporrò, poi deciderà lei se la cosa la interessa!

domenica 3 maggio 2009

ALTERED


DUE CHIACCHIERE PRELIMINARI: questa recensione è gemella della precedente (Solstice) per cui non tornerò a fare le stesse considerazioni, vi ricordo solo che questo film è girato da uno dei due registi (Eduardo Sanchez) di The Blair witch project, mentre Solstice era girato dall’altro (Daniel Myrick).

LA TRAMA IN BREVE: tre amici sulla trentina catturano un alieno in un bosco e decidono di portarlo da un quarto uomo con il quale avevano rotto ogni relazione ai tempi dell’adolescenza. Lì scopriamo che quindici anni prima gli alieni avevano rapito cinque ragazzi e solo quattro avevano fatto ritorno. Che cosa fare dell’alieno? Uno degli uomini, il fratello del ragazzo scomparso, vorrebbe ucciderlo ma il quarto uomo non la ritiene una buona idea. Intanto l’alieno comincia a manifestare i suoi terribili poteri psionici nel tentativo di liberarsi.

COMMENTO: anche leggendo questa trama, un po’ come leggendo quella di SOLSTICE, probabilmente non vi sarà venuta una grandissima voglia di vedere il film. Devo essere sincero, a me leggendo il risvolto del dvd non era venuta. Le storie di rapimenti da parte degli alieni, da Bagliori nel Buio in giù mi lascino piuttosto freddino, per non dire di peggio. Questo film però è stato tutto sommato una piacevole sorpresa.
La prima cosa da dire è che si tratta di un b-movie. Uno di quelli che hanno fatto almeno un pezzo della storia del cinema horror anni ottanta, quella firmata da registi come Stuart Gordon o Brian Yunza che di certo gli appassionati ricordano bene, ma anche di certi film di Carpenter (tipo Essi Vivono per dirne uno). Che cosa caratterizza questi film? Non saprei nemmeno definirlo esattamente: di certo il budget non elevato, effetti speciali artigianali, il fatto di rifiutare il cliché dell’horror pensato per gli adolescenti, un contenuto splatter piuttosto cospicuo. Ma oltre a questo c’è qualcosa di più: un’atmosfera divertita, una sorta di sotterraneo senso di anarchia. In ogni caso una cosa è certa, di questo genere di prodotto ad un certo punto ha cominciato un po’ a perdersi lo stampo, per cui per me questo film giunge inatteso e corroborante.
La trama sebbene basilarmente non molto originale, trova il suo perché nella sostanziale unità di tempo e spazio (quasi fosse un’opera teatrale è praticamente tutta ambientata in un garage) e nello sviluppo delle sue sfumature. Gli effetti speciali sono artigianali ma ben fatti, a partire dall’alieno adeguatamente gommoso (molto anni ’80 e al contempo molto più efficace dei chili di 3D che ci vengono ormai propinati ad ogni angolo), continuando con i metri di intestino che vengono srotolati fuori dalla pancia di uno dei malcapitati e per finire con un personaggio che marcisce in diretta (un po’ come in Un lupo mannaro americano a Londra). Il ritmo è incalzante, e il film assai corto e anche questa è una forma di anarchismo, della serie: se hai cose da dire per un’ora e quindici minuti non c’è bisogno di arrivare a un’ora e mezza riempiendolo di cose che non c’entrano, non ti paghiamo a peso.
In conclusione questo Altered per me è stato un film soddisfacente a cui, se fossimo a scuola, assegnerei una sufficienza piena - anche se non eccessivamente abbondante.
Consigliato, ma solo agli amanti del genere.