Ieri sera su La7 hanno trasmesso in diretta uno spettacolo di Marco Paolini.
E’ la terza volta in un anno o poco più (a quanto ricordo, almeno). Il primo spettacolo è stato “Il sergente” tratto da un libro di Mario Rigoni Stern, uno spettacolo sulla seconda guerra mondiale. Il secondo spettacolo è stato “Album d’aprile” in cui Paolini ha ripreso e fatto un collage di alcuni sui vecchi spettacoli “Gli Album”.
In questo “La macchina del capo” invece il materiale è almeno in parte originale. O almeno non mi pareva di averlo mai sentito e dal momento che ho visto molti dei suoi spettacoli non credo di sbagliarmi. Altro materiale invece è tratto sempre dagli “Album”.
La location dello spettacolo era l’ex tribunale di Padova, sullo sfondo era montata come scenografia una costruzione che imitava l’imponente facciata spoglia di un palazzo che ricordava gli anni cinquanta/sessanta; un palazzo che poteva essere una scuola, la pertinenza di un edificio religioso o una colonia e infatti nel corso dello spettacolo è stata ciascuna di queste cose. Il palco era fatto ad imitazione di una lavagna, o forse era proprio tale perché Paolini ogni tanto, come rivelavano alcune inquadrature dall’alto, ci disegnava sopra con un gigantesco gessetto. Davanti al palazzo di sfondo era tirato un filo per stendere con appesi indumenti giganteschi e sul palco sparsi alcuni oggetti di scuola, sempre giganti: un paio di matite, quelle gomme tonde piatte e dure con la plastica e il buco al centro, che ho imparato ieri sera essere “per macchina da scrivere”.
Il tema dello spettacolo era, come si poteva già si poteva capire dalla scenografia, l’infanzia. Paolini si raccontava come un bambino delle elementari di nome Nicola, come faceva anche negli Album dedicati a quell’età della sua (certamente rielaborata) vita. E in effetti di quei testi tornano anche le tematiche (l’amicizia, il rapporto con i genitori, la religione) nonché i personaggi: Nano, Gianvittorio, il mitico Cesarino (“Non son capace!”).
Che dire… ovviamente mi è piaciuto moltissimo, ma non sono obiettivo perché nutro un amore viscerale nei confronti di Marco Paolini, capace come pochi (forse a pensarci bene dovrei dire “come nessun altro”) di farmi ridere ed emozionare a volte persino nella stessa frase.
Volevo raccontarvi un aneddoto. Ho conosciuto Marco Paolini in una seconda serata televisiva di una decina di anni fa, quando dalla diga del Vajont raccontò la tragedia della sua esondazione a più di trent’anni di distanza. E’ successo per caso. Stavo chiacchierando con mio padre, sdraiato sul letto dei miei, la televisione della loro camera andava in sottofondo. Mio padre mi disse che voleva vedere quello spettacolo e io pensai di rimanere per qualche minuto. Il giorno dopo dovevo alzarmi ragionevolmente presto per cui non volevo far tardi, ma una volta iniziato a guardare lo spettacolo non sono più riuscito a staccarmene. Non avevo mai sentito parlare di quel fatto di cronaca. Mi sembrava terrificante l’idea che in Italia potesse essere accaduto qualcosa del genere in tempi che ancora valutavo come recenti: dopotutto i miei genitori c’erano e la guerra era passata da un pezzo. D’altronde allora avevo un’idea molto vaga di tutto ciò che era accaduto nel dopoguerra, quasi che da allora a qui il nostro paese dovesse avere sempre vissuto senza altre tragedie, benedetta gioventù! (ed ecco che dopo questa esclamazione corro a spararmi nelle palle…).
Beh insomma, dopo lo spettacolo sul Vajont per molti anni non mi è più capitato di incrociare la strada di Marco Paolini. Poi a partire da tre o quattro anni fa ho recuperato lo spettacolo sulla tragedia di Ustica (I-TIGI), quindi sono andato a vedere a teatro quello su Porto Marghera (Parlamento Chimico): altri spaccati stupendi dell’Italia di anni che io non ho vissuto (ma che tragicamente stenta a passare). Quindi ho scoperto che mia madre (intanto con passare degli anni i miei genitori si erano separati e io ero andato a vivere con Simona, la mia compagna) aveva comprato “Gli album”: cinque o sei dvd di spettacoli fiume che raccontano la storia di Nicola (alter-ego di Paolini) dall’infanzia all’età adulta. Per certi versi è sempre una storia dell’Italia di quegli anni, anche se vissuta dal punto di vista molto personale: forse l’unica sua opera che mi è piaciuta ancor più di quella sul Vajont.
E’ stato proprio vedendo gli Album che sono stato avvolto da una strana sensazione: io parte di quei testi avevo l’impressione di conoscerli già. Come era possibile? Specialmente all’entrata in scena di Piero Matto (che appare anche in La Macchina del Capo) la sensazione è stata palpabile.
Poi mi è venuto in mente. Alle medie la nostra professoressa di italiano ci aveva portato a teatro a vedere uno spettacolo che parlava di un gruppo di bambini, fortemente incentrato sulle loro partite di pallone nel campetto del quartiere. Un monologo recitato da un ragazzo che poteva avere venticinque o trent’anni (in realtà ne aveva trentacinque). Ricordavo che mi era piaciuto un sacco. Praticamente ero stato l’unico di tutta la classe a cui fosse piaciuto, ricordavo bene di avere riso a crepapelle e di essermi quasi commosso, ma non ricordavo minimamente chi fosse l’attore o il titolo dell’opera. Ebbene facendo una ricerca ho scoperto che sette anni prima di Vajont avevo visto “Tiri in porta”, uno dei primi Album.
E… beh niente.
E’ stata una scoperta bizzarra, ecco tutto.
Mi autocommento per prova. Ciao a me stesso.
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