Tredici racconti horror… o suppergiù.
Di Mc Grath, alcuni anni fa avevo letto e molto amato “Follia” un libro che ebbe, tra l’altro, un notevole successo. Mi ero ripromesso che un giorno avrei approfondito, ma come spesso mi capita sono in seguito stato attratto da altro. Con un certo ritardo eccomi a mantenere la promessa.
Cominciamo con il dire questo: personalmente trovo che il racconto sia un formato adeguato per il genere horror (non per nulla li scrivo pure io…), avere un’idea orrorifica abbastanza buona da tenere desta la mia attenzione per un numero di pagine sufficiente a comporre un romanzo è difficile. Non impossibile, ma relativamente difficile. Inoltre il racconto è il trionfo dell’idea: non c’è tempo di annegare un’idea mediocre parlando d’altro, è necessario costruire un meccanismo ad orologeria che ti conduca dritto al punto. Altra cosa importante, ti puoi permettere di sperimentare. In questo libro, ad esempio, c’è un racconto narrato dal punto di vista di uno stivale. Molto interessante perché dura dieci pagine, un romanzo intero sarebbe agghiacciante.
Fatta questa premessa, veniamo al testo.
Diciamo questo, complessivamente mi è piaciuto “abbastanza”. Come accade spesso in una raccolta ho trovato i racconti diseguali. Pochi quelli memorabili, sebbene alcuni mi abbiano divertito parecchio. In ogni caso la scrittura è quasi sempre di classe e questo fa la sua parte, senza dubbio. C’è però anche da dire che alcuni racconti della raccolta sembrano davvero capitati lì per caso, ad esempio “Victor Bibulus” che di suo non è un brutto racconto ma a parte una tenuissima aura gotica non ha davvero nessuna attinenza col genere orrorifico. Lo stesso dicasi per “Marmilion” che pure è un racconto gradevole ma non ha molta attinenza con l’orrore e ha un finale abbastanza stupido e incomprensibile. Complessivamente i racconti che ho preferito sono quelli più grotteschi e stravaganti: “La mano nera del Raj” (anche se ha dieci righe di finale inutile e posticcio), “La mano di un maniaco”, “Il racconto dello stivale”, “La patata ero(t)ica”.
Alcuni racconti si rimandano tra loro per tematiche e ambientazioni, ad esempio “La malattia del sangue” è una sorta di prequel di “L’esploratore perduto”, tra l’altro conferisce al secondo una plausibilità diversamente abbastanza zoppicante. “Il racconto dello stivale” e “La patata ero(t)ica” sono ambientati nello stesso scenario post-olocauso nucleare. Le tematiche africane ritornano spesso così come quelle psicoanalitiche (ma che questa sia una delle cifre della letteratura di McGrath non dubitavo già dai tempi di Follia) e così una certa – ambigua - tensione erotica di sottofondo.
Di Mc Grath, alcuni anni fa avevo letto e molto amato “Follia” un libro che ebbe, tra l’altro, un notevole successo. Mi ero ripromesso che un giorno avrei approfondito, ma come spesso mi capita sono in seguito stato attratto da altro. Con un certo ritardo eccomi a mantenere la promessa.
Cominciamo con il dire questo: personalmente trovo che il racconto sia un formato adeguato per il genere horror (non per nulla li scrivo pure io…), avere un’idea orrorifica abbastanza buona da tenere desta la mia attenzione per un numero di pagine sufficiente a comporre un romanzo è difficile. Non impossibile, ma relativamente difficile. Inoltre il racconto è il trionfo dell’idea: non c’è tempo di annegare un’idea mediocre parlando d’altro, è necessario costruire un meccanismo ad orologeria che ti conduca dritto al punto. Altra cosa importante, ti puoi permettere di sperimentare. In questo libro, ad esempio, c’è un racconto narrato dal punto di vista di uno stivale. Molto interessante perché dura dieci pagine, un romanzo intero sarebbe agghiacciante.
Fatta questa premessa, veniamo al testo.
Diciamo questo, complessivamente mi è piaciuto “abbastanza”. Come accade spesso in una raccolta ho trovato i racconti diseguali. Pochi quelli memorabili, sebbene alcuni mi abbiano divertito parecchio. In ogni caso la scrittura è quasi sempre di classe e questo fa la sua parte, senza dubbio. C’è però anche da dire che alcuni racconti della raccolta sembrano davvero capitati lì per caso, ad esempio “Victor Bibulus” che di suo non è un brutto racconto ma a parte una tenuissima aura gotica non ha davvero nessuna attinenza col genere orrorifico. Lo stesso dicasi per “Marmilion” che pure è un racconto gradevole ma non ha molta attinenza con l’orrore e ha un finale abbastanza stupido e incomprensibile. Complessivamente i racconti che ho preferito sono quelli più grotteschi e stravaganti: “La mano nera del Raj” (anche se ha dieci righe di finale inutile e posticcio), “La mano di un maniaco”, “Il racconto dello stivale”, “La patata ero(t)ica”.
Alcuni racconti si rimandano tra loro per tematiche e ambientazioni, ad esempio “La malattia del sangue” è una sorta di prequel di “L’esploratore perduto”, tra l’altro conferisce al secondo una plausibilità diversamente abbastanza zoppicante. “Il racconto dello stivale” e “La patata ero(t)ica” sono ambientati nello stesso scenario post-olocauso nucleare. Le tematiche africane ritornano spesso così come quelle psicoanalitiche (ma che questa sia una delle cifre della letteratura di McGrath non dubitavo già dai tempi di Follia) e così una certa – ambigua - tensione erotica di sottofondo.